Le parole nemiche del futuro

L’altro giorno, alla presentazione di un interessante libro di Annalisa Buffardi e Derrick de Kerckhove, mi è apparso chiaro il perchè quando si parla “del web” in occasioni pubbliche, quelle che richiedono un minimo di divulgazione, è sempre più facile diventare stucchevoli. Il punto è che in queste situazioni la parola “web” ricorre troppo spesso, appesantendo non poco anche i concetti più ovvi.

Direi che è quasi inevitabile, perchè se parliamo di strumenti di comunicazione, ormai “il web” non ha più quel carattere residuale che lo connoterebbe ancora come “una parte del tutto”. Così, quando Buffardi si affannava a definire “il sapere digitale”, che poi sarebbe il tema del libro in questione, con le sue caratteristiche distintive rispetto alle dinamiche di costruzione delle conoscenze in rete, sembrava inseguire qualcosa di così pervasivo da aver forse varcato la soglia della trasparenza. E per la prima volta, la sensazione è stata che questa soglia sia stata raggiunta e superata non solo per il cosiddetto pubblico “degli addetti ai lavori”, ma anche nella maggior parte del piccolo pubblico “casuale” che era fisicamente presente durante la presentazione.

E se è vero che ogni tecnologia può dirsi matura quando diventa – appunto – trasparente, se è vero che il web sta ormai diventando il luogo dove si dà per scontato che venga prodotta e distribuita l’informazione, la cultura, l’intrattenimento, magari oggi è finalmente possibile iniziare ad attribuire il carattere della residualità a ciò che per anni abbiamo considerato “principale”: i giornali, i libri, la radio, la televisione. E con loro, i loro “indotti” e i loro “linguaggi”, tanto da farci sperare che ciò che ancora oggi chiamiamo “cultura digitale” sia anch’essa destinata a diventare magicamente trasparente.

Anche se potrebbe sembrare una pura provocazione – e per certi versi lo è – per libri, giornali radio, televisione si potrebbe dunque iniziare a parlare di un “non-web”. Ovviamente non accadrà, perché nessuno ha bisogno dell’ennesima, inutilissima buzzword. Ma se accettiamo l’idea come paradosso, o anche solo come strumento dialettico, confrontare il “non web” con ciò che oggi è – semplicemente – il modo in cui le persone comunicano, si informano, si intrattengono o si acculturano, potrebbe aiutarci ad alleggerire questo genere di imprese divulgative. Senza sentirsi in obbligo di porre l’accento su aspetti che sono ormai parte integrante della vita di molti di noi, come “il pensiero ipertestuale”, “la conoscenza connettiva” o “la socializzazione dei processi cognitivi”.

Naturalmente sarebbe ancora apprezzabilissimo lo scrupolo, in particolare da parte del mondo accademico, di trovare definizioni corrette di tutti i processi in atto, anche per quelli più sfuggevoli e in divenire. Ma se concentriamo tutti gli sforzi nel cercare di fotografare con le parole un treno in movimento, un treno – tra l’altro – su cui siamo ormai tutti sopra, si corre il rischio di sviluppare un rullino di fotografie inevitabilmente tutte mosse. E allora mi verrebbe da dire, perché non provare a salire sul treno e abbandonare il distacco che a volte viene gabellato per rigore accademico?

Magari in questo modo, nei tanti libri “sul Web” che troviamo sugli scaffali dei negozi potremmo cominciare a non leggere più, per esempio, termini come “televisione tradizionale”. E così come oggi diamo giustamente per scontato che dire “ho visto un video” significa “aver visto un video sul web”, con tutti gli usi sociali che ne derivano, al posto di “televisione” si potrebbe ipoteticamente iniziare a parlare di un “non web video”, e cioè di uno schermo che non dialoga, e che rinuncia ad attribuire anche il minimo valore al canale di ritorno.

Ripeto, non intendo certo lanciare, coi “non web media”, quello che sarebbe un inservibile neologismo. Ma dopo avere accumulato una certa esperienza di incontri pubblici, convegni e seminari su questi temi penso che sia necessario provare a invertire i termini del racconto della transizione in atto. Si potrebbe così iniziare a guardare in avanti senza questa eterna sensazione della “strada in salita”, che pone l’accento sui mille, scontati ostacoli di questo difficile passaggio e della resistenza al cambiamento, come se le vere opportunità fossero appunto quelle nascenti dalla transizione, che per la loro natura hanno un respiro molto corto, e non quelle che ci aspettano sull’altra sponda, a patto di riuscire ad approdarvi in tempo utile.

Cambiando “l’angolazione del racconto”, si potrebbero cominciare a capire meglio alcune abitudini non solo dei “nativi digitali”, ma anche dei sempre più numerosi “immigranti digitali” della generazione precedente, che proprio grazie alla proliferazione dei “dispositivi connessi” – meno ostici del computer – hanno mostrato una insospettabile e ben più consapevole capacità di scoperta delle nuove opportunità. Parliamo di persone che oggi, con una certa naturalezza, interagiscono sui social media durante un grande evento di aggregazione televisiva, come l’ultimo Festival di Sanremo. O reagiscono con fastidio all’idea di dover pagare la versione elettronica di un libro di cui si è acquistata la copia cartacea. O trovano incomprensibile il fatto di poter leggere senza problemi la versione digitale di un quotidiano sul computer, ma non su un tablet.

Sono proprio questi “nuovi fastidi” a costituire l’indizio più evidente dell’inadeguatezza delle classiche leggi del marketing – da sempre le più dure a morire – attuate delle stesse aziende che dovrebbero essere le protagoniste della “filiera digitale”. Comandamenti come quello – ipercelebrato – secondo cui le persone non sanno affatto cosa vogliono, e che i bisogni dovrebbero essere indotti, e quindi anticipati, e non intercettati a posteriori. Ma finché a sostenere queste posizioni a spada tratta saranno le stesse persone che discettano ancora di “old” e “nuovi” media non avremo ragione di sorprenderci più di tanto.

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

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