Twitter e le prigioni dell’Emiro

Mohammad al-Mulaifi potrebbe essere condannato a svariati anni di prigione in Kuwait per le proprie dichiarazioni su Twitter, per ora è stato arrestato dalla polizia segreta l’11 Febbraio ed è detenuto in attesa della conclusione dell’indagine.

al-Mulaifi è accusato di aver insultato la minoranza Sciita del paese nei suoi tweet, stesso crimine commesso da Mubarak al-Bathali che è stato condannato a tre anni di prigione, sentenza poi ridotta a sei mesi.

L’avvocato di al-Mulaifi, Yacoub Bahbood, ha dichiarato che il suo cliente è stato interrogato su un numero di accuse che spaziano dall’offesa alla religione sciita, a propaganda a favore di gruppi che intendono minare le basi della convivenza sociale fino alla diffusione di notizie false che minano l’immagine del paese.

La vicenda nasce da un articolo scritto dall’uomo e postato sul proprio profilo Twitter che aveva suscitato l’indignazione e le proteste degli Sciiti del Kuwait. al-Mulaifi, vedovo con 4 figli ed impiegato presso il Ministero degli Affari Islamici, nega ogni accusa e intende appellarsi per ottenere il proprio rilascio.

L’uomo e Mubarak al-Bathali, che nel frattempo è stato scarcerato ed è di nuovo attivo su Twitter, sono in ogni caso in buona compagnia. Le incarcerazioni per dichiarazioni sui social media non sono una novità nel paese. A settembre una corte del Kuwait ha condannato a tre mesi di carcere attivisti Sciiti e Sunniti per tweet che avrebbero inneggiato al settarismo. Nasser Abul ha trascorso un analogo periodo nelle prigioni dell’Emiro per aver criticato le famiglie reali del Bahrain e dell’Arabia Saudita.

Il Kuwaiti non è l’unico paese dell’area a mostrare una crescente attenzione ai social media. Hamza Kashgari, giornalista dell’Arabia Saudita, rischia, ad esempio, una dura condanna per le sue dichiarazioni su Twitter. Il 23enne giornalista del Al-Bilad, quotidiano saudita, aveva avuto l’idea, a posteriori pessima, di postare un’immaginaria conversazione con Maometto sull’Islam. I tweet ritenuti blasfemi hanno ricevuto più di 30000 commenti e hanno spinto alla creazione di una pagina Facebook in cui si chiede persino l’esecuzione del giornalista. Hamza Kashgari è stato costretto a fuggire ma senza troppo successo visto che è stato deportato dalla Malesia e rimpatriato in Arabia Saudita, dove ora attende in carcere una possibile condanna a morte.

Il fato di Kashgari e al-Mulaifi rimane incerto, nonostante i due uomini si siano entrambi scusati per le proprie dichiarazioni. al-Mulaifi in ogni caso non sembra essere in pericolo di vita, anche se alcuni dei suoi oppositori chiedo la revoca del diritto di cittadinanza in Kuwait.

Quello che appare chiaro è che le proteste dei giovani mediorientali sembrano aver spaventato a morte i reali dell’area che, alla tradizionale censura dei media broadcast e della società civile, affiancano sempre più spesso la repressione della rete e dei social media. Le condanne esemplari sembrano mirare ad un effetto domino, più che alla semplice punizione del crimine. Lo scopo è scoraggiare la libera espressione del pensiero che potrebbe minare i regimi esistenti, e limitare l’uso dei media sociali, accusati di favorire la diffusione dal basso di queste pericolose schegge di pensiero. Le stesse scuse degli imputati si trasformano in uno spettacolo educativo di terrore, umiliazione e rieducazione, che confermano il potere del regime e la giustizia del credo tradizionale. Ma riusciranno davvero queste azioni a impedire la diffusione del pensiero attraverso i social media e a stemperare le tensioni sociali?

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