Touchscreen e input device: le conseguenze insospettabili

Confesso che prima di stamattina non avevo alcuna idea su cosa scrivere su TechEconomy questa settimana. Poi, chiudendo il bagagliaio della macchina con troppa foga mi sono distorto un pollice e ho pensato: bene, ora ho una scusa formidabile per non scrivere nulla e saltare alla prossima settimana.  Ho così estratto lo smarphone dalla tasca per avvertire la redazione, e – senza pensarci – stavo per inviare un SMS con la vituperatissima tastiera touch, quella che vibra, che ti fa sbagliare una lettera su cinque, che sbaglia i suggerimenti, insomma quella che molti – me compreso – odiano dal profondo.

Solo a metà messaggio mi sono reso conto che avevo un pollice inservibile, ma che stavo ugualmente  scrivendo senza problemi, grazie allo schermo capacitivo. Così ho cambiato idea e ora sono qui, dolorante su una tastiera tradizionale, a parlarvi – appunto – di tastiere e delle loro conseguenze.

Per lungo tempo, almeno fino all’apparizione dell’iPhone, abbiamo creduto che quella delle micro tastiere per cellulari fosse una sorta di compromesso accettabile tra tascabilità, ergonomia e necessità continua di interagire su social media sempre più pervasivi. Poi arrivò l’iPad, e ricordo ancora due tra i primi possessori di questo meraviglioso oggetto (Marco Massarotto e Marco Zamperini) presentarlo alla folla incantata di un convegno “tecnologico” organizzato dal Partito Democratico un paio d’anni fa. I due “Marchi” passarono il pomeriggio a spiegare che razza di rivoluzione avrebbe comportato l’introduzione di touch screen finalmente abbastanza ampi da non pagare alcuno scotto all’esigenza di interagire, fino – forse – a cambiare per sempre il nostro modo di immettere dati e facendo magari sparire, col tempo,le tastiere tradizionali.

In quella occasione ero tra il pubblico, e alla termine della demo rivolsi ai due qualche innocente domanda: ma non pensate che l’introduzione di un oggetto destinato a sbaragliare il mass-market, e ottimizzato per interagire con testi e frasi brevi, non sia un modo per scoraggiare le persone a “prendere in mano lo storytelling”? Non c’è il rischio che allontanando le persone dal PC per avvicinarle a oggetti  immersivi, dove le interazioni sono poco più che riflessi condizionati, non restituisca definitivamente “il racconto” strutturato agli editori classici e – più avanti – ai brand? Non stiamo forse  ponendo una pietra tombale sulle chance di chi (una volta si chiamavano “User Generated Content”) vuole andare oltre l’aforisma, o il re-post tipico delle piattaforme di content curation come Twitter o Tumblr, spostando almeno una parte di attenzione verso di loro? E per tornare a uno dei primi articoli di questa rubrica, non ci ritroveremo tutti di nuovo a commentare i contenuti creati dai media mainstream?

Zamperini e Massarotto, abili e consumatissimi frequentatori delle ribalte tecnologiche, commentarono con garbo e onestà intellettuale la questione da me sollevata, ma in sostanza non risposero. Del resto era troppo presto per gettare lo sguardo oltre l’ostacolo comportamentale, anche perché eravamo tutti – me compreso – felicemente sconvolti da quello che sembrava uno straordinario passo in avanti proprio in termini ergonomici, e queste considerazioni sulle conseguenze nell’industria dei contenuti sembravano davvero fuori argomento.

Ma ora sono passati – appunto – due anni, e quanto si sia assottigliato (anche se non necessariamente impoverito)  il contributo qualitativo degli utenti medi a ciò che leggiamo sulla rete è un dato sotto gli occhi di tutti, anche a prescindere della cosiddetta “morte dei blog” di cui si è forse anche troppo parlato.

Certo, la colpa non è solo del touchscreen. Più cose veloci, divertenti e che rubano l’occhio si possono fare su qualsiasi device e meno tempo passiamo a “raccontare” qualcosa scrivendo su una tastiera. E questo fenomeno contagia anche le forme espressive non testuali: anche quando scattiamo una foto o un video tendiamo a raccontare sempre di meno. Il che non significa “la fine dello storytelling” ma forse la nascita di un inconsapevole racconto collettivo, che nessuno prova a governare, se non forse – con alterni risultati – le varie piattaforme di aggregazione dei “nuovi intermediatori” come Tumblr, Redux e (buon ultimo) Pinterest.

Niente di così tragico, dunque, ma comunque una evoluzione ispirata, in una precisa finestra di opportunità, non da un “Over the Top” della rete ma ancora una volta dalla più grande azienda di device manufacturing, la Apple. Guarda caso l’unica – ed è questo che dovrebbe farci riflettere – ad aver raggiunto su basi vantaggiose una difficile ma inevitabile alleanza con le major.

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

2 COMMENTS

  1. Ho una personale teoria in merito, ed è che con gli anni si è passati dal “raccontare” al “descrivere”. Morte del blog a parte, i social media hanno avuto successo proprio perchè ci consentono di descrivere fatti puntuali, stati d’animo puntuali, situazioni puntuali. Non raccontando ma descrivendo, non è richiesta nemmeno una reazione- racconto, ma basta l’espressione di uno stato d’animo (mi piace/non mi piace/rebloggo/retwitto). Quanto questo sia dovuto all’istantaneità della condivisione, supportata anche dai device touchscreen, e quanto a un cambiamento collettivo della visione, non mi è dato saperlo, ma è un tema affascinante, sul quale indago. Quanto poi al successo di Pinterest e in generale dei social non basati sullo scritto ma sull’immagine, sul video, mi sembra una logica conseguenza. Cosa di più descrittivo di un’immagine? Cosa di più self-explanatory? Che tipo di immagini girano su queste piattafome? A me sembrano immagini tecnicamente belle e accattivanti ma poco artistiche perchè sono estetizzanti, mirano a mostrare un “qui e ora” idealizzato, non a raccontare una storia che può avere, come tutte le storie, aspetti negativi.

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