Path: tra telenovela e club esclusivo

La notorietà di un mobile social network come Path vi è forse arrivata attraverso le cronache, con il racconto di violazione della privacy scoperta da un programmatore di Singapore, Arun Thampi, che ha denunciato come Path copiasse di nascosto le informazioni dell’adress book degli utenti iPhone. Vicenda che si chiude con un post di tante scuse, la cancellazione di tutti i dati sottratti surrettiziamente e la promessa di chiedere l’autorizzazione in futuro.

Non è certo un bel biglietto da visita con cui presentarsi ma c’è anche da dire che ormai siamo sempre più abituati a imbatterci con le difficoltà di gestione della privacy all’interno di un mercato dell’innovazione digitale in chiave sociale (Facebook in testa) che ritiene l’idea di privacy qualcosa che risiede nel ‘900, un’epoca in cui le persone non avevano tutto questo “bisogno” di condividere con gli altri in pubblico le proprie vite.

E di messa in narrazione delle proprie vite dobbiamo parlare quando parliamo di Path. Per quanto riguarda quanto “in pubblico” forse vale la pena di soffermarci.

Path si presenta come un “diario moderno che ti aiuta a condividere la tua vita con le persone che ami” orientandosi quindi, da subito, ad un contesto più intimo di sharing di contenuti.

D’altra parte le ricerche mostrano una crescente attenzione per la cura di ciò che pubblichiamo e di chi può accedervi: il 63% degli utenti di siti di social network praticano una pulizia dei friend (unfriending) – erano il 56% un anno fa.

Sarà per questo che Path ha un limite dei friend che possiamo avere più basso degli altri: non più di 150. È questo il numero di Dunbar, definito dal sociologo inglese nel delineare il numero massimo di persone con cui ogni individuo è in grado di mantenere una relazione sociale attiva. Quel limite diventa immediatamente un elemento che ti fa riflettere su chi accettare o meno fra gli amici e a chi chiedere l’amicizia. Capita, ad esempio, che persone che solitamente hai nella tua rete su Facebook, Twitter o FriendFeed non ti accettino. O che decidi di cancellare qualcuno che lo utilizza più in chiave social network e meno in mood personal. Perché da subito ci si percepisce in uno spazio di condivisione più intima. Ha senso utilizzarlo solo se si è disposti a condividere questa intimità mediata.

Il resto è una timeline costruita dai pensieri che vuoi condividere, foto della tua quotidianità che puoi modificare con filtri che esaltano il tuo umore, filmati da mostrare ai friend per mostrare quello che stai facendo al lavoro, geolocalizzazione in cui raccontare in quale locale ti trovi e con quali friend, condivisione di brani musicali da pescare nelle anteprime di iTunes e una future da dipendenza d’uso: il bottone a forma di quarto di luna in cui comunichi quando vai a letto e quando ti svegli (con relativo calcolo di ore di sonno e luogo in cui ti trovi). Con la possibilità, ovviamente, di commentare e fare like (di diversa natura, anche non positiva) ai contenuti degli amici e, per quei contenuti che riteniamo più mainstream, di condividerli sui nostri profili Twitter, Facebook, ecc. Il tutto condito con una notifica sul proprio smartphone ogni volta che un “amico” aggiorna la sua timeline.

Raccontata così sembra l’estrema banalizzazione di un auto-monitoraggio costante delle nostre vite in mobilità da condividere con gli altri, una telenovela 24/24 della nostra vita (dove il “tele” sta, ovviamente, per “a distanza”). Se osserviamo più a fondo vediamo invece che si tratta anche di un modo di ritagliare una “cerchia” esclusiva dopo un’epoca di sbornia di social networking in cui abbiamo applicato un’estrema inclusività, in particolare nell’uso professionale dei propri profili privati nei siti di social network.

Loïc Le Meur, nella sua esperienza di imprenditore francese che si è trasferito a San Francisco, lo racconta come un luogo in cui si è “cerchiata” la A-list della Silycon Valley fatta di imprenditori, giornalisti che si occupano di tecnologie, guru del marketing ecc. C’è bisogno di chiudere fuori della porta tutto quel rumore che Facebook e Twitter nel loro diventare mainstream stanno generando e allo stesso tempo trovare un ambiente digitale in cui incontrarsi abbastanza intimo e pubblico allo stesso tempo: un club privato online. Così, accanto ad un uso strettamente famigliare o di piccolo gruppo, quello che un social network come Path intercetta è la necessità di sottrarsi alla trasformazione mainstream dei social network con cui siamo cresciuti digitalmente – con tutti i rischi di snobismo connessi – e fare dell’emozione una moneta sociale su cui costruire un capitale sociale relazionale da giocare in ambiti anche professionali.

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