Terrore tra i mainstream media: la cultura piace alla “ggente”

38.500 persone per un evento letterario non sono poche. E a giudicare dalle sale dell’Auditorium prese d’assalto per le conferenze di Mieli, Travaglio e Todorov credo si possa affermare che la terza edizione di Libri Come, la festa del libro e della lettura appena conclusasi a Roma, sia stata un successo senza precedenti.

 Ogni giorno nelle nostre città si tengono una miriade di incontri pubblici in cui vengono discussi i temi più disparati. Ambientati in location sempre più informali, questi momenti di condivisione e discussione mostrano una certa vivacità anche nella reinvenzione dei format. Da quello tradizionale che ruota intorno alla presentazione di un libro, si è ormai passati al talk show mutuato dalla televisione, fino ad approdare ai veri e propri happening negli spazi urbani, come quelli organizzati da Urban Experience. E una nuova dignità sembrano aver recuperato anche i classici seminari, come le famose “Lezioni di Storia” inventate da Laterza, e ormai giunte alla settima edizione. Lo stesso concetto di “lezione”, che implica il fatto di dedicare del tempo ad ascoltare qualcuno che ne dovrebbe saperne più di noi su un determinato tema, e per anni derubricato ad adempimento, per una fascia crescente di persone diventa non solo una qualificata occasione sociale, ma anche un investimento di tempo per acquisire nuovi strumenti critici con cui decodificare la realtà.

Viene dunque il sospetto che siano sempre più numerosi gli italiani che prendono coscienza di come i media mainstream, negli anni, abbiano alacremente lavorato per allontanarci dai problemi e dalle questioni reali. Se pensiamo alla “televisione”, (cioè alla possibilità di vedere le cose a distanza, come ci ricorda l’etimologia della parola), potremmo dire che in tutti questi anni abbia piuttosto finito per assolvere alla funzione diametralmente opposta. Mentre la radio e i giornali, che pure potevano avere il compito di restituirci “la cassetta degli attrezzi”, sono stati non solo progressivamente soppiantati dal piccolo schermo, ma ne hanno anche in larga misura mutuato linguaggi e stili, oltre al modello di business.

E se queste appaiono considerazioni personali, quello che pare indiscutibile è che vi sia una crescente domanda di contenuti culturali. Quei contenuti che le piattaforme di distribuzione tradizionali non consideravano economicamente sostenibili, e che hanno sempre relegato in “ghetti”: le “Maratone d’estate” con gli spettacoli di danza trasmessi in TV dopo le due di notte; le terze pagine dei giornali, quasi delle foglie di fico strette tra il gossip e i pastoni politici; e infine RadioTre, che pur continuando a svolgere con merito il ruolo di servizio pubblico, resiste a stento agli assalti della lottizzazione politica, e viene protetta più dal suo affezionatissimo pubblico che dagli organi preposti a garantire il pluralismo e l’indipendenza della RAI.

Ecco, la RAI. La prima azienda culturale del paese, che dovrebbe seriamente riflettere sul fallimento dei suoi tentativi di “vendere cultura” in una logica premium (come RaiSat Art), mentre riscuotono consensi i nuovi canali gratuiti sul digitale terrestre come Rai5 e RaiMovie, di cui è subito saltata all’occhio una programmazione abbastanza ambiziosa. Una RAI che dovrebbe chiedersi perchè i canali radiofonici di utilità pubblica come GR Parlamento e RAI Auditorium registrino una crescita continua dei propri  ascolti in FM nelle città dove sono ricevibili.

Insomma, dato il fermento di ciò che accade negli spazi pubblici, la sensazione è che il mondo dei media si ritrovi a rincorrere questo trend con colpevole ritardo.

In tutto questo, il Web si candida a costituire la piattaforma ideale per offrire una dimensione mediatica a questi piccoli e grandi eventi. Ogni incontro pubblico genera infatti una coda di contenuti multimediali facilmente fruibili e riaggregabili attraverso siti e applicazioni. Il problema è che la fascia di età più sensibile alla cultura non coincide con quella che ha maggiore confidenza con gli strumenti informatici. Una sfida interessante per chi lavora nell’industria della cultura potrebbe dunque essere quella di portare questi contenuti su schermi che non richiedono una particolare alfabetizzazione tecnologica, come a tendere potrebbero rivelarsi le Connected TV. E’ un peccato che nessuno abbia pensato di scrivere applicazioni OTT-TV per veri e propri gioielli come Arte Live Web o Vernissage TV, canali che per loro natura non richiedono particolari localizzazioni o sottotitoli.

Come ho avuto modo di spiegare in molte occasioni, il poter utilizzare il web come piattaforma distributiva indipendente permette alle stesse istituzioni culturali di raggiungere nuovi pubblici anche in forme ben remunerate. I Berliner Philharmoniker, per fare un esempio di alto profilo, non hanno difficoltà a vendere lo streaming dei loro concerti direttamente agli utenti del loro sito, senza più doversi preoccupare di stringere accordi commerciali con le emittenti televisive per la distribuzione e la cessione dei diritti.

Ma – per tornare ai microeventi e agli incontri pubblici – la diffusione sul web potrebbe semplicemente costituire un servizio accessorio a basso costo che si giustifica per la promozione stessa delle “prossime puntate nel mondo reale”, senza necessariamente generare “in sé” una nuova fonte di ricavi.

Concludendo, sembra di essere di fronte al classico caso economico in cui esiste un bene (il contenuto culturale) e un mercato (il pubblico), ma i soggetti che presidiano la possibilità di farli entrare in contatto sembrano voler ancora combattere battaglie di retroguardia come cercare un nuovo pubblico e nuovi inserzionisti  a cui propinare la solita montagna di becerume.

Potrebbe dunque sussistere una finestra di opportunità economiche per una nuova generazione di “media tycoons”, mentalmente più flessibile e meno contaminata da queste pratiche consolidate.  Gli investimenti, a loro volta, dovrebbero arrivare dai più avveduti tra gli sponsor delle istituzioni culturali, i primi interessati ad accelerare la transizione verso nuovi ecosistemi. Solo quando questo avverrà, suonerà il campanello d’allarme negli stanze dei bottoni dei media mainstream. Ma a quel punto  potrebbe rivelarsi una chiamata fuori tempo massimo.

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

2 COMMENTS

  1. Non generalizzerei molti dei contenuti divultati dai media tradizionali come culturali, semplicemente perchè dedicati ad affrontare argomenti non di stretta attualità o a rappresentare un particolare contesto con la lente della scienza, della storia, dell’arte.

    Certamente negli ultimi anni il pubblico ricerca approfondimenti, più o meno specifici, e di sicuro le principali televisioni nazionali non sempre accontentano gli spettatori: é pur vero che nel mercato sono subentrati attori decisi e decisivi, come le piattaforme tematiche a pagamento, in particolare nel segmento satellitare.

    Il successo della cosiddetta pay-tv é dovuto, a mio avviso, anche alla diversificazione dei contenuti, in virtù di palinsesti slegati spesso da condizionamenti della politica e degli investitori pubblicitari.

    Secondo me la popolazione é interessata ad un mix di contenuti, e la ricerca di eventi di carattere culturale é l’espressione viva di un bisogno che non é troppo celato, e di cui non mi stupirei: mi sarei sostanzialmente preoccupato dell’esatto contrario, cioè di una narcolessia delle menti!

  2. nemmeno io sono stupito. il fatto è che (al di là della funzione “laica” rispetto al business che dovrebbe avere la cultura) stupisce l’inerzia del mondo dei media tradizionali, dove chi potrebbe intravedere delle opportunità di business preferisce foderarsi gli occhi di salumi misti

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