CopyLeft, CopyRight e il rischio del cortocircuito

Quando un movimento, una corrente di pensiero nata e cresciuta in rete prende forma nel mondo degli atomi l’effetto suggestivo è assicurato. Guardare negli occhi dalla prima fila del Teatro Valle Occupato alcuni dei protagonisti dell’eterna battaglia per la riforma del diritto d’autore, nel corso dei CopyLeft Days che si sono chiusi sabato scorso a Roma, è stato bellissimo. Anche perché il contesto era così plasticamente adeguato, con quest’aria un po’ da comune di Parigi, questi meravigliosi scapigliati che discutevano nel foyer, che si aggiravano alacremente nei corridoi dietro ai palchi per dare forma, quasi fisicizzare il serrato dibattito su cosa fare di vecchi arnesi come la proprietà intellettuale, che quasi sembrava di riuscire a rompere – finalmente e una volta per tutte – la barriera dell’autoreferenzialità, un ostacolo che da sempre affligge i circuiti della cultura cosiddetta indipendente.

Se c’è qualcosa che può avvicinare i cittadini a queste cruciali tematiche e alle istanze di questo movimento è un luogo, delle persone e delle parole udibili e comprensibili come quelle pronunciate nella tre giorni del Valle. Parole, per intenderci, come quelle di Luca Nicotra, che ha ricordato i pericoli di una politica che proprio in questi giorni appare ancora soggetta alle pressioni delle grandi lobby dei mainstream media. O come quelle di Donatella Della Ratta, che ha spiegato in modo lucido e inequivocabile che un modello di business “personale”, centrato sulle singole idee di ognuno di noi, senza pagare pegno ad avidi intermediari può essere possibile. Ma anche voci dissonanti, come il monito di Carlo Infante sui rischi delle dinamiche collettive, delle tribù chiuse e scollegate (e qui il riferimento allo stesso Valle è apparso evidente) che non “ri-usano” il pensiero di chi “sta fuori” per giungere ad una sintesi in costante ridiscussione come quella permessa dalla Grande Rete.

Parole anche scomode quindi, e proprio per questo efficaci nella dialettica anche perché sacrosantamente inframezzate dalla proiezione di documentari di grande effetto come R.I.P. – A remix manifesto e Copiad Malditos, che meglio di mille discorsi possono far capire l’assurdità delle regole esistenti e le ragioni economiche della resistenza al cambiamento.

E però, e però manca qualcosa, come direbbe un mio caro amico della bassa. Sì, perché proprio nei dibattiti del Valle Occupato, simbolo vivente dell’urgenza di una nuova nozione di “libertà d’espressione”, si è anche capito che il focus di molti artisti sono anzitutto i loro diritti, e non il diritto dei cittadini di vivere in un ecosistema della cultura davvero aperto. Se affermiamo, come risuona nei manifesti del Valle, che la cultura è un bene comune, è evidente che affrontare troppi aspetti dal punto di vista dei meccanismi di remunerazione degli “artisti” (e le virgolette intendono estendere il concetto, non ridicolizzarlo) significa correre il rischio di combattere una battaglia di retroguardia: sostituire a un vecchio cortocircuito un nuovo cortocircuito. Una catena del valore nuova di zecca dove non tarderanno a farsi avanti nuovi – affamatissimi – intermediari pronti a dettare regole e pretendere la loro parte. E questo non ha molto a che fare con un altro vecchio arnese, la democrazia, che pretenderebbe invece di riportare il tema nel più ampio alveo dei diritti costituzionali.

Anche perché se si guarda la questione dal semplice punto di vista degli interessi contrapposti di due “categorie” (creatori da una parte e “padroni del vapore” dall’altra) il rischio è quello di consegnarla nella mani di legali ed esperti di diritto privato che – anche loro – hanno tutto l’interesse di ritagliarsi un ruolo preponderante nell’assetto prossimo venturo.

E allora, se provo a tirare le fila di quello che ho udito in questi tre giorni, forse un primo passo importante per evitare questa deriva neo-privatistica sarebbe compiere uno sforzo per definire chiaramente i ruoli. Perché se siamo tutti prigionieri di una generica retorica, tutti “pasdaran del copyleft” da una parte (dove la gratificazione è l’ovazione delle due ali di folla che ci accompagnano da anni), e tutti a timbrare il cartellino contro la “pirateria” dall’altra (e qui la gratificazione è il lauto stipendio delle major,  appena scalfita dal problema di guardarsi allo specchio la mattina senza scoppiare a ridere) la prospettiva è quella di trovarsi tra 5 anni a celebrare dei “Copyleft Days” molto simili a quelli del 2012, magari in qualche nuovo fulgido tempio vivente della libertà d’espressione.

Personalmente, tra cinque anni preferirei trovare invece un gruppo di attivisti e militanti in grado di manovrare “le API delle istituzioni”, proprio come i colleghi di Agorà Digitale e di altre associazioni che difendono le libertà in rete. Poi mi piacerebbe avere negli “artisti” degli alleati pronti a non inalberarsi contro le culture del remix, dopo essersi magari spesi a favore del software libero.  E infine – ma so per esperienza che questa è la sfida più difficile – una industria dei media pronta ad accogliere le nuove sfide sotto forma di un ecosistema che nessuno abbia la pretesa di governare, tanto da non poterlo più chiamare “la catena del valore”. Ma questa è un’altra storia, e direi che per oggi vi ho già ammorbato abbastanza.

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

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