Venezia, ci sono ancora i BarCamp di una volta

Sembra ieri, ma in realtà sono già passati quasi 8 anni dai primi barcamp italiani: Torino, poi Milano e poi Roma, in una sequenza  che potremmo definire neo-risorgimentale.  Furono queste le occasioni che  per prime diedero sostanza fisica ai rapporti sociali e alle discussioni  che un gruppo di persone particolarmente curiose già avevano instaurato in rete. Sul futuro della rete, certo: non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche sul modo in cui il Web avrebbe potuto cambiare molti aspetti della nostra vita quotidiana, sconvolgendo abitudini individuali e modelli economici.

In quel gruppo di persone, che si è poi clamorosamente allargato abbracciando le estremità della penisola, sono nate amicizie, e poi anche qualcosa di più delle amicizie. E rapporti professionali, e poi persino aziende che erano startup prima che iniziassimo a chiamare “startup” qualsiasi idea destrutturata e “venture capitalist” o “angel” chiunque si facesse vedere in  Lacoste, ma con l’atteggiamento di chi fuma il sigaro e porta le bretelle.

Ma l’inevitabile nostalgia non è tanto per il gruppo “della prima ora”  – che anzi dovrebbe rifuggire da qualsiasi tentazione amarcordista (dietro la quale spesso si cela la tentazione di costituirsi in neo-casta)  ma per il processo con cui nei primi anni venivano concepiti e organizzati questi eventi.

Un wiki per organizzare il ritrovo, capire chi parteciperà, delineare  i temi: la viralità come unico strumento promozionale; qualche piccola azienda che si proponeva come partner per dare un minimo supporto tecnico, logistico o di catering, senza alcuna pretesa di influire sul programma e sulla “linea” dei contenuti.

Poi, a partire dal 2007, varie evoluzioni concomitanti: mentre il puro volontariato si concentrava sull’organizzazione di piccoli barcamp tematici, le grandi aziende iniziano a supportare anche economicamente i barcamp generalisti, per legittimissimi scopi promozionali. E così (soprattutto a Roma e a Venezia) i barcamp assumevano la portata – e purtroppo anche la forma – dell’evento mainstream.

A loro volta molti convegni tradizionali iniziavano a scimmiottare lo stile del Barcamp, con effetti a volte comici, ma più spesso sconfortanti, nell’intento di disperdere l’odore di muffa che ormai pervadeva la gran parte delle conferenze sull’ICT (ma esiste ancora l’ICT?).

Ma torniamo a Venezia, perché è del VeneziaCamp dello scorso 12-13 aprile su cui vorrei riflettere per qualche riga. Rispetto alle ultime edizioni nella fastosa sede dell’Arsenale, il trasloco al pur bellissimo VEGA Park di Marghera ha indubbiamente ridimensionato “l’immaginario individuale” che associavamo a questo appuntamento. Ma le persone che avevano qualcosa da dire, proprio come ai vecchi tempi, le hanno dette, senza alcuna barriera all’ingresso o incentivo economico. E questo è forse il patrimonio più importante da salvaguardare per il futuro  –  al netto dei pitch, degli hub, dei social- spritz che oggi (forse giustamente) dominano il campo.

E magari proprio perché lontani dall’imperante “CorsoComismo” , a Venezia sono potuti nascere interessantissimi dibattiti sul  difficile dialogo  tra la rete e il giornalismo,  fulminanti suggestioni sul rapporto tra web, turismo e territorio, e anche una serie di discussioni unite dal tema centrale della disillusione rispetto agli entusiasmi iniziali della “seconda web economy”, con sullo sfondo lo spettro di una nuova grande bolla prossima ad esplodere.

Tutti temi che richiedono un minimo di approfondimento, perché naturalmente refrattari alla “mistica dei cinque minuti” in cui sembra scontato che chiunque debba comprimere il racconto della propria idea, col comico risultato di farci spesso apparire come fossimo la versione tarantolata del venditore Herbalife che ti aspetta all’uscita dalla metropolitana.

La verità è che – col proliferare delle cose da dire e da far sapere – il nostro tempo e la nostra attenzione si rivelano sempre più nella loro natura di risorse scarse, costringendoci o a “pescare nel mucchio della kermesse delle idee”, o ad attribuire un valore intrinseco alla “qualità della discussione”.  Ed è su questo punto – per quanto fuori moda – che il format del Barcamp, in cui da sempre si confondono palco e platea, si mostra ancora oggi straordinariamente attuale. Perché più si discute, meno si vende, e non mi pare si tratti di una conquista da poco.

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

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