Facebook e la coda di paglia dell’economia immateriale

Con un intero sistema economico in crisi, che ha permesso ai derivati di raggiungere un valore pari a 7 volte il PIL mondiale, l’immagine di Zuckerberg che festeggia la quotazione in borsa della sua creatura dal balcone di Wall Street appare quantomeno fuori registro.

Stupisce che anche in una azienda come Facebook, che dovrebbe essere sensibile ai valori simbolici delle immagini, non vi sia stato il minimo pudore rispetto alla crescente percezione di una ricchezza che se non è propriamente fondata sul nulla, quantomeno è ancora alla ricerca di una credibile ragion d’essere.

Tra l’altro, finchè sussisterà questo equivoco, sarà ancora facile assistere – sconcertati – ai deliri di chi “si appoggerà” al fatto del giorno (la quotazione di Facebook, appunto) per lanciare proclami di evidente natura ormonale.

Quando Plateroti, importante firma del nostro principale quotidiano finanziario, dice a Sky TG 24 che la febbre di Facebook è una follia “perché Zuckerberg non ha una fabbrica”, proprio come le dot.com della prima bolla speculativa a cavallo del millennio, verrebbe da opporgli qualche semplice rilievo.

E’ infatti possibile che la febbre intorno a Facebook sia una follia, ma non per l’assenza di una fabbrica di oggetti materiali. Persino il Sole 24 Ore – non esattamente uno storico fustigatore della finanza speculativa – sembra aver capito che il proprio asset economico sono le idee e la professionalità di persone competenti come Plateroti, e non il possesso di una tipografia e di una catena distributiva. Semmai, le aspettative nei confronti di “big F” sembrano sovradimensionate per l’assenza di un modello di business a lungo termine in grado di monetizzare le idee e i dati condivisi (consapevolmente o meno) dalla “metà attiva” di quel quasi-miliardo di utenti iscritti che dichiarava prima di gettarsi nell’arena finanziaria.

Ecco, il modello di business: la pubblicità, certo. La rivendita dei profili dei clienti, ovvio. Ma questo appare ormai a molti come un “tema tattico”, buono per una risposta rapida e semplice per gli investitori, e magari anche per i giornalisti delle redazioni economiche. Ma qual è il “tema strategico” di Facebook? In che modo il giovane Mark intende rendere sostenibile l’immensa baracca che ha messo in piedi?

La sensazione più diffusa tra gli analisti del settore (e scusateli se non portano le bretelle) è che non solo non è definitivo il modello di business pubblicitario, ma non è nemmeno chiara la killer application di questo social media, che però ha il merito di farsi guidare – per ora – da un solo obiettivo: mantenersi oltre il tipping point (la soglia degli utenti che trascina tutti gli altri) in tutte le attività che le persone scelgono di svolgere quando navigano sul web.

Perché la storia recente – e la legge di Metcalfe – ci insegnano che in ogni servizio del mondo social, a tendere, “c’è spazio per uno solo, l’asso piglia tutto”. La chat di Facebook, trascinata dalla crescita inarrestabile del numero degli account, sta cannibalizzando MSN, che veniva usata quasi solo per chattare, per non parlare di Skype che – non a caso – si è subito arresa a dialogare con gli utenti dl rivale più ingombrante. Gli album fotografici di Facebook hanno messo in crisi servizi specializzati, come Flickr. E se qualcuno sembra sfuggire al controllo – come Instagram – Facebook non ha problemi a ingollarla in un sol boccone, indipendentemente da cosa intenda davvero farci.

E’ vero che molte delle leve principali del web sono ancora presidiate da Google, forse l’unico soggetto con cui Zuckerberg dovrà rassegnarsi a convivere nel lungo termine. Ma il punto è un altro: quella a cui stiamo assistendo, complice l’entusiasmo immotivato (e artificialmente sostenuto) delle borse, prima ancora di essere una “nuova bolla” è una grande guerra di posizione. La definizione dei modelli di business dei social network , al di là delle zuppe tiepide fatte bere alla comunità finanziaria, è di là da venire. E comunque è successiva al momento in cui sarà chiaro non solo il quadro delle cose che le persone intendono farci ma anche i dati che saranno disposti a condividere, in una nozione di privacy completamente diversa rispetto a quella a cui siamo abituati e alla quale ancora si ispirano – irriducibilmente – le principali istituzioni regolatorie.

Amazon e iTunes, per citare solo i casi più evidenti, dimostrano chiaramente che i modelli economici a lungo termine non possono che fondarsi sul superamento di certi tabù, nonché sulla collaborazione (o dovremmo chiamarla “deportazione”?) dei media tradizionali. Perché esiste anche un altro tipping point: quello della sopravvivenza del vecchio mondo, che magari non prospera più come una volta, ma ancora emette qualche debole segnale di vita, sufficiente per far passare come saggia prudenza l’istinto ancestrale di remare contro.

Facebook e la coda di paglia dell’economia immateriale

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

2 COMMENTS

  1. Crediamo che la domanda da porsi sia semplice: davvero sarà una delle protagoniste del futuro un’azienda che spera di vivere di pubblicità promettendo di far vendere un prodotto vecchio come l’auto (ovviamente il riferimento è al ritiro degli investimenti pubblicitari da parte di GM poco prima dell’IPO di FB)?
    E che offre servizi relazionali che permettono solo relazionalità banali e che hanno successo solo presso le generazioni “quasi giovani”: dai 20 ai 35 anni. Perché i ragazzi veramente giovani cominciano a guardare con spirito critico una relazionalità che li costringe a scambiarsi (magari tra tantissimi) messaggi banali?
    Certo costruirà il futuro del suo fondatore … o, forse, nemmeno il suo?!?ImprenditorialitàAumentata

  2. Condivido molto, ma chiarisco un punto: non giudico irrazionale il valore attribuito in borsa a fb “perchè non ha fabbriche”. anche gli asset intangibili, come la proprietà intellettuale, hanno un proprio valore che va riconosciuto- il problema che sollevo, è la reale identificazione degli asset intangibili sucui si regge il valore in borsa di fb. di fatto, il software è la parte che vale meno di FB, i veri asset siamo noi che lo usiamo. ma noi non siamo asset dell’azienda, ma solo il rpodotto di un partcolare modello di business, assolutamente imprevedibile nel tempo. In borsa si chiamano bombe a orologeria.

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