Il ROI degli Open Data. Questo sconosciuto!

Ugo Bonelli si occupa da anni di valutazione, monitoraggio e controllo di progetti di investimento pubblici con particolare riferimento all’eGovernment. Per Tech Economy riflette su qual è il ROI degli Open data per la PA

E’ l’argomento del momento, non c’è dubbio. Iniziative e progetti per l’apertura e l’accessibilità dei dati di provenienza pubblica si moltiplicano presso molte Amministrazioni centrali e locali. Nello stesso tempo aumentano le domande che le stesse Amministrazioni si pongono sull’utilità e reale valore aggiunto di questi progetti; ma soprattutto l’interrogativo che viene rivolto ai gruppi di lavoro appositamente dedicati all’interno delle strutture pubbliche per tali progetti e’: “…si, ma quanto mi costa? Mostrami il ROI (Return on Investment) di questo progetto? Sgombriamo subito il campo; domande legittime, alle quali è necessario, comprensibilmente, cercare di fornire una risposta completa e, possibilmente, argomentata tanto più in momenti di spending review selettiva. Perché le PA dovrebbero aprire i propri dati, quindi? Se, in aggiunta, non si è in grado di dimostrare l’economicità/redditività di questi progetti?

Autorevoli analisti hanno concentrato opportunamente la loro attenzione sulle implicazioni economiche del paradigma Open Data (in particolare della PSI, Public Sector Information, come si definisce a livello Europeo per il riutilizzo dei soli dati pubblici); tralasciamo, per un momento, gli impatti in termini di trasparenza, partecipazione alla definizione delle politiche pubbliche e dei processi decisionali che questo modello agevola, che tipo di ritorno ha il policy maker nell’investire sull’apertura e condivisione dei dati prodotti?

Come emerge in occasione di incontri e dibattiti più o meno pubblici, l’argomento del ritorno degli investimenti della PA va inquadrato, a nostro parere, nella distinzione di ruoli che intercorre tra:

  1. Amministrazioni Pubbliche e società partecipate produttori di dati;
  2. Società, sviluppatori, software house e start-up che riutilizzano i dati prodotti e resi disponibili.

Sono ruoli e responsabilità ben distinti nel quadro dell’impatto economico e finanziario che generano; se, nel primo caso, siamo di fronte a soggetti che non hanno come obiettivo primario “fare business” (vendere prodotti/servizi) ma erogare servizi pubblici essenziali (Welfare), nel secondo invece devono alimentare un indotto costituito da servizi/applicazioni aggiuntivi, capaci di stare sul mercato e “ripagarsi” grazie ad un modello di business che ne consenta la sua economicità e la redditività degli investimenti necessari (capitale umano, beni materiali e immateriali, connettività, ecc.).

Ora, è del tutto chiaro che la differente posizione degli attori nella filiera del “modello Open Data” necessità di un’analisi diversificata per evidenziare costi, impatti sull’organizzazione, modalità operative. Come noto il ROI è un indicatore quantitativo prettamente economico-finanziario che misura la redditività del capitale investito:

ROI = Risultato operativo/Capitale investito netto operativo

Il risultato operativo è pari alla gestione operativa (conto economico), mentre il capitale investito netto operativo misura il totale degli impieghi caratteristici al netto degli ammortamenti e degli accantonamenti, ossia l’Attivo Totale Netto meno gli Investimenti extracaratteristici (investimenti non direttamente afferenti all’attività aziendale, ad esempio immobili civili). Nell’analisi economico/finanziaria di un investimento, quest’ultimo è da valutare positivamente se il valore del ROI ottenuto è almeno pari o superiore al tasso medio di interesse sul capitale (debito).

Al di la dei tecnicismi nel calcolo di questo indicatore, è del tutto evidente quanto questo non sia applicabile nel caso delle pubbliche Amministrazioni; questo per diversi ordini di ragioni:

  1. Come valutare i ricavi (cash flow) della PA? (nella maggior parte dei casi, i dati non vengono venduti)
  2. Come quantificare i benefici diretti ed indiretti, esterni ed interni all’amministrazione non monetizzabili dei progetti di Open Data?
  3. Come misurare gli investimenti non direttamente riconducibili al progetto considerato?
  4. Come spostare la prospettiva di valutazione  degli ammortamenti e accantonamenti da un approccio tipicamente aziendale ad uno legato alle Amministrazioni pubbliche

Queste e altre criticità portano a ritenere questa metodologia per la valutazione dell’investimento in un progetto Open Data come poco adatta; mentre nel caso di soggetti riutilizzattori di dati pubblici siamo in presenza di costi/ricavi ben individuabili, ciò non vale per le PA, che, se da un lato ha sostenuto dei costi per la raccolta, sgrezzamento e selezione dei dati da rendere accessibili, dall’altro non è agevole imputare questi costi ad uno specifico dataset individuato per via di una macchina amministrativa complessa ed articolata. Dal lato dei “ricavi”, inoltre, progetti di Open Data hanno ricadute che vanno al di là di numeri facilmente quantificabili, coinvolgendo i territori ed i settori oggetto di osservazione, il livello di trasparenza dell’attività amministrativa, gli impatti macroeconomici.

Per tali motivi nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni è necessario ricorrere ad indicatori qualitativi basati sulla trasparenza, sulla partecipazione ai processi decisionali dei cittadini/utenti/dipendenti, oltre che quantitativi nella valutazione dell’opportunità di intraprendere la “strada” Open Data.

A tale scopo è più indicato ricorrere all’analisi costi/benefici; è possibile, con questo metodo, valutare benefici e costi diretti e indiretti di uno specifico progetto. L’idea alla base di questa metodologia è quella di un’analisi comparata dei vantaggi, in termini di miglioramenti del benessere collettivo, e dei costi, in termini di “prezzi ombra” delle risorse, relativi ai diversi possibili interventi pubblici, siano essi progetti di investimento o generica attività di regolazione normativa. L’analisi costi-benefici valuta progetti alternativi di intervento pubblico e consente di introdurre una migliore ponderazione di elementi qualitativi determinanti nelle scelte di investimento; la presenza di beni pubblici (come i “Data” prodotti sono) e di forti esternalità positive sono elementi che fanno propendere per questa metodologia di valutazione. È l’adozione del punto di vista della collettività nella valutazione dei progetti che vale a contraddistinguere l’analisi costi-benefici in senso stretto dall’analisi finanziaria, con la quale condivide l’approccio di fondo with-or-without la presenza dell’investimento.

In sintesi, risulta molto complesso valutare puntualmente i progetti di Open Data per la natura stessa dei benefici attesi da queste attività; più utile considerare la disponibilità dei dati “a prescindere” dai loro costi/ricavi, come un diritto di cui la collettività (gli utilizzatori) devono beneficiare. In ogni caso, l’analisi costi/benefici e le sue differenti declinazioni operative appare, per la sua maggiore flessibilità di applicazione, come la metodologia più indicata.

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6 COMMENTS

  1. Ciao Ugo, è indubbiamente un tema interessante. Occorre a mio avviso tenere presente che un approccio puramente ‘aziendalista’ rischia di non intercettare alcuni benefici meno tangibili nel breve termine (per la PA e per chi riutilizza), e non solamente di cassa. Mi sto interessando a questa prospettiva, raccogliendo e analizzando casi concreti. Quando e se vuoi ci possiamo confrontare sulla cosa ([email protected]). Per l’intanto ti segnalo questo http://ands.org.au/resource/houghton-cost-benefit-study.pdf, da cui sto traendo spunti interessanti anche a livello metodologico.

  2. Ciao Raimondo, senz’altro avremo l’opportunità di confrontarci sul tema; hai ragione, bisogna fare un grande lavoro metodologico per definire quali e quanti benefici attendersi da tali progetti. Condivido e sostengo, come si può desumere dall’articolo, l’approccio “non aziendalistico”; il passaggio ad una valutazione più macroeconomico (passami il termine) è necessaria. D’altronde stiamo parlando di beni pubblici che, come tali, impattano molte sfere della collettività e del suo agire quotidiano. L’analisi va portata su tutte quelle implementazioni pratiche dell’economia del benessere e delle teorie e metodologie sui vantaggi comparati per la società. Grazie della segnalazione, leggo attentamente. ([email protected])

  3. 2/3 anni fa Zijlstra ha discusso in dettaglio un tema sostanzialmente identico a questo, cioè “come si costruisce un business case dell’aprire i dati?”, arrivando alla conclusione che in casi del genere è proprio sbagliato porre la domanda, perché è un discorso al quale non è applicabile, e nemmeno si dovrebbe provare a farlo.

    Una sintesi di quanto dice, completa di link al suo articolo completo, è nell’ultimo paragrafo del capitolo “Internal Value” del mio rapporto Open Data, Open Society:

    http://www.lem.sssup.it/WPLem/odos/odos.html#toc20

    a presto,

    Marco Fioretti

    • Ciao Marco, grazie del link; inutile dirti che condivido; si dovrebbe, tuttavia, cercare di effettuare un’analisi più qualitativa dei costi e benefici attesi, possibilmente articolata per i mercati verticali nei quali vengono resi disponibili i dati. Senza avere, comunque, i crismi della “scientificità”
      A presto,
      Ugo

  4. Buongiorno

    leggo con interesse l’articolo e ne condivido il contenuto.
    Tuttavia credo che alcuni elementi debbano essere presi in considerazione.
    L’aperture dei dati permette un’attività di monitoraggio da parte dei comuni cittadini o di aziende, il principio é che essi possano essere controllori di eventuali abusi, frodi eccetera.
    Una cifra interessante da mettere sul piatto é : quanto spendono oggi le PA in controlli e revisioni?
    E’ possibile ipotizzare una riduzione di questi costi grazie all’open data e al meccanismo sopra citato?

    La seconda considerazione é effettivamente legata a un quadro “macroeconomico”, poter incrociare questi dati facilmente permette di avere un quadro d’insieme, in una visione (non troppo) futuristica é ipotizzabile la realizzazione di collettori e aggregatori delle informazioni “open” per analisi approfondite.
    Inoltre i dati Open possono essere utilizzati anche dalle amministrazioni stesse andando in qualche modo a sostituire (in parte) i canali interni che sono lenti e macchinosi, questo effetto potrebbe portare ad una modernizzazione dell’intera PA verso standard aperti che di fatto si imporrebbero sul panorama in questione.
    L’effetto di standardizzazione ha un ROI decisamente elevato in quanto rende i sistemi facilmente evolutivi, il che permette di realizzare servizi ad oggi impossibili riducendo inoltre drasticamenti il costo di accesso all’informazione.
    Il segreto della riuscita dei progetti di qualunque tipo essi siano é legato direttamente all’uso che se ne fa e alla volontà di portarli a termine, é dimostrato che gli standard aperti hanno sempre portato grandi giovamenti e avere degli utilizzatori capace di fare pressioni sull’ente erogatore del servizio porta a riconcentrare gli sforzi su cio’ che realmente ha valore.

    Questa mia analisi é puramente qualitativa, ma son certo che un’analisi quantitativa approfondita potrebbe portare risultati impressionanti.

    • Grazie del commento e degli spunti interessanti. Un più agevole e immediato monitoraggio è sicuramente supportato da dati aperti con standard condivisi all’interno dell’Amministrazione. La possibilità di individuare frodi e abusi ne viene senz’altro rafforzata. Sono quelli che chiamerei “benefici” interni all’Amministrazione, che se calcolati puntualmente, possono dare una misura dell’efficacia di questi progetti e delle loro ricadute; li considererei, tuttavia, solo come una faccia della medaglia (benefici) da rapportare ai costi da sostenere per tale iniziativa. Comunque è un indicatore senz’altro utile e da considerare e valutare.
      Sul secondo punto, sono assolutamente d’accordo; le potenzialità di scambi di dati e informazioni standardizzati tra Amministrazioni sono uno dei punti qualificanti, a mio parere, di tali strategie. In una parola, una vera e concreta interoperabilità tra sistemi informativi diversi porta senz’altro a guadagni in termini di produttività dell’azione amministrativa e di erogazione di servizi. Mi scuso per la tardiva risposta!

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