Net of the State: persino a Trieste è difficile mettersi il Belpaese alle spalle

Di ritorno dall’intensa due giorni triestina, non posso esimermi dal lasciare qui alcune impressioni sulla seconda edizione di State of the Net, a ragione definito da Marco Massarottoforse il migliore evento sul Web organizzato in Italia negli ultimi anni”. Del resto, l’organizzazione – a cura della triade Valdemarin-Maistrello-Pagliaro – costituiva da sola una garanzia confortante.

Trieste, che rivendica un ruolo di capitale della divulgazione scientifica, si è rivelata una location più che all’altezza, anche per il suo essere così orgogliosamente città-limite, e quindi anche implicita arena di confronto tra culture, anche oltre le semplici matrici geografiche. Il fatto stesso di voler ripetere l’evento già l’anno prossimo nella città giuliana è indice di una volontà di associare questa conferenza a una “esperienza territoriale”, così come accaduto in passato con la BlogFest, evento che ormai nessuno riesce ad immaginare svincolato dai panorami del Lago di Garda.

Il “respiro internazionale”, dunque. Obiettivo indubbiamente centrato dal punto di vista dell’atmosfera, ma con qualche dubbio per quanto riguarda i contenuti. La lezione da imparare, infatti, è che se si vuole una conferenza fortemente aperta alla partecipazione della platea, così come è stato, e la platea è quasi interamente italiana, i temi si spostano inevitabilmente verso i tormentoni nostrani.

In queste condizioni, è fatale che dopo uno speech sulle smart cities si finisca per parlare di come da noi sia “una chimera, data la cultura delle amministrazioni delle nostre metropoli”.  Oppure, che dopo un bel panel sull’open data journalism ci si intestardisca a fare domande su “che fine faranno i giornali e le catene tradizionali dell’informazione”, tema che era risultato stucchevole persino nella 4 giorni del festival del giornalismo di Perugia.

E anch’io sono caduto nel tranello, quando nel corso del panel “Organizations don’t Tweetho inesorabilmente calato il tema del necessario ricambio dei decisori nel brodo dell’italico scontro tra caste e giovani generazioni.  Insomma, a volte siamo scivolati nella “Net of the State”, ripercorrendo discussioni e posizioni viste e riviste senza cavare ragni da alcun buco.

Al netto di una organizzazione perfetta e di una scelta di relatori di altissimo livello (e non solo d’oltreconfine: voglio ricordare soprattutto gli interventi di Vincenzo Cosenza, Roberta Milano e del formidabile Gigi Tagliapietra) l’unico suggerimento che mi permetto di rivolgere è adoperarsi affinché – la prossima volta – non solo il palco ma anche la platea sia davvero internazionale. Perché se l’obiettivo è quello di fare di State of the Net un “LeWeb” più rigoroso, come mi pare di aver capito in alcuni buzz off the record, occorre fare in modo che il contenuti scaturiscano dalle relazioni, da ciò che avviene in mezzo al pubblico, e anche nella pausa caffè, nelle passeggiate sul lungomare di Trieste, tra persone di ogni parte del mondo. Anche come garanzia per non cadere nella deriva commerciale di cui è ormai vittima LeWeb, come raccontano delusi i primi reduci rientrati da Londra.

Credo che in ogni caso si sia imboccata la strada giusta, privilegiando la qualità dei contenuti e soprattutto cercando di fare dell’evento anche “una scusa” per produrre materiali – anche multimediali – di valore, e dal lungo ciclo di vita. Il keynote di Euan Semple, una illuminante fotografia del rapporto tra aziende e social media, da solo valeva tutta la seconda giornata. Purtroppo non posso dire altrettanto della provocazione finale di Andrew Keen il quale, nella miglior tradizione della coda lunga delle opinioni (“ogni opinione ha un mercato”), punta a raccogliere i facili consensi di qualsiasi cassandra della rivoluzione digitale, riducendo tutte le questioni in gioco a una semplice faccenda di privacy intrisa nella trita e ritrita salsa orwelliana. Funziona come provocazione, ma è facile da sgamare, come si dice dalle mie parti: speriamo almeno che sia servito a vendere qualche copia in più del suo libro.

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

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