Politica e Social Media: se questo è il Nuovo

Con la curiosità e diciamo anche la nostalgia di chi da un po’ di tempo non partecipava a eventi di matrice politica, martedì scorso ho fatto un salto alla Festa dell’Unità. L’occasione era un dibattito con Paolo Gentiloni, Debora Serracchiani e Valentina Grippo che – moderati da Andrea Vianello – avrebbero fotografato la situazione dei Media in Italia con una specie di grandangolo: partendo dall’AGCOM, per proseguire con le nomine RAI, e infine atterrare sull’influenza dei socialcosi a noi tanto cari. 

A volte mi chiedo se “il punto sui Media” non sia poco più di una specie di rituale nei confronti pubblici tra politici. E me lo chiedo perché da anni tutto si svolge più o meno nello stesso modo, e questa volta non è certo stata l’eccezione. Il moderatore (invariabilmente un giornalista) alterna domande di attualità (alla Serracchiani: “ti candidi alla segreteria?”), a generici spunti sull’uso di twitter e facebook, con l’unico risultato di  innescare il teatrino “tu sì che sei una star, con trentamila follower, io sono un dilettante”, da leggersi  ovviamente come “tu giochi col computer, io faccio politica”.

Questa  deriva della discussione, che aveva come scopo quello di compiacere l’elevata età media del pubblico presente – orgogliosamente ferma alle vignette di Staino – è così tristemente prevedibile, che è stato sufficiente armarsi di cronografo e far partire il conto alla rovescia, per scommettere su quando dal palco sarebbero state pronunciate le parole “I social media non sostituiscono la politica” (Serracchiani, ore 21.51) o “Il popolo della rete” (Vianello, ore 22.12). Perché “va bene il Web, ma gli italiani prendono le loro decisioni guardando la televisione” (Gentiloni, ore 22.19) e così via.

Certo, perché esiste il Web da una parte, che non garantisce poltrone da occupare e giardini da coltivare, e poi c’è “la televisione”. Perché “se non hai una televisione non fai politica”, e quindi il PD per un po’ ne ha avute giustamente due (YouDem e RED). Così, per dare un segnale di unità, visto che siamo alla Festa dell’Unità.

Ma a parte le beghe mediatiche interne del PD, c’è un aspetto davvero triste da sottolineare. Francamente non si capisce come questa cosa di considerare il Web qualcosa che si aggiunge agli altri canali di comunicazione di massa (Radio, Giornali e soprattutto Televisione), possa essere un concetto ancora radicato nella testa di persone competenti, come Paolo Gentiloni, che si occupano di queste cose ormai da molto tempo. Anche il mio edicolante settantenne ha capito che il Web è una piattaforma dove tutte queste cose, per vie diverse, sono destinate a confluire, assegnando nuovi ruoli e determinando nuove competenze e nuovi modi di farci politica.

Eppure è un concetto duro a morire, e dispiace che anche un personaggio limpido come Debora Serracchiani (di cui ammiro la grinta e condivido le intenzioni) nei fatti si pieghi, come ha fatto sul palco, a una discussione la cui premessa sarebbe l’esistenza di una “politica virtuale” distinta da una “politica vera”.

Non ci vorrebbe molto, infatti, per far notare che “la politica virtuale” è semmai quella di chi crea testate giornalistiche di partito per accedere a ulteriori finanziamenti pubblici; di chi salta sul satellite (canale 96xx di Sky) per farsi la propria “Tele Padre Pio” , dove al posto del Padre di Pietrelcina c’è il politico locale di turno e tutta la sua pletora di microindotti. Oppure di chi chiama l’ANSA per rilasciare una dichiarazione, di chi sceglie  ogni propria mossa o battito di ciglia, in relazione all’inquadratura di una telecamera più o meno compiacente.

La politica reale, quella di cui abbiamo bisogno, è quella che mobilita, e Internet  – come ha dimostrato la campagna per Obama – è un formidabile strumento di mobilitazione. La Serracchiani lo sa, e mi sarebbe piaciuto sentirglielo dire in quella occasione. Sarà per la prossima volta.

Facebook Comments

Previous articleCanone TV per i PC: dopo la RAI, ci prova la Francia
Next articleGoogle Analytics: app per Android e nuovo servizio per l’analisi delle performance delle app
Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

2 COMMENTS

  1. Condivido… ma sempre più spesso mi viene da pensare che il vero problema dei politici come dei manager e dei giornalisti sia accettare fino in fondo ed in modo onesto un fatto fondamentale dei social media: se decidi di parlare (ma anche se non lo fai) dei sapere che i social media sono un luogo in cui sviluppare un dialogo, non un podio da cui pontificare. Mi pare che in Italia sia politici, che i giornalisti, che i manager dell’aziende siano abituati solo alla dinamica “io parlo, tu ascolti”, tipica della pubblicità o della tv analogica. Sui social invece se parlo devo anche essere in grado di ascoltare, di accogliere critiche, posizioni diverse, spunti a cui non avevo pensato e saperli valorizzare come ricchezza… per farlo serve molta umiltà… e mi pare una dote assai in disuso…

  2. è vero, quella è una lungua battaglia dal sapore generazionale. il fatto è che probabilmente un fabbro o un minatore sarebbe più adatto ad accogliere il cambiamento culturale. costoro hanno prosperato negli anni lavorando e comunicando alla vecchia maniera, senza il canale di ritorno. per loro è più difficile accettare il dialogo.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here