Londra 2012: un bilancio mediatico

Chiariamolo subito: le Olimpiadi di Londra sono state un successo straordinario. E credo lo si possa affermare prima ancora che gli organizzatori inizino a snocciolare i numeri di pubblico, gli incassi degli sponsor, e altri parametri più o meno scientifici. Possiamo dirlo perché con questa edizione dei giochi “la visione anglosassone del mondo” ha lasciato con chiarezza la sua impronta sui media internazionali. Fin dalla cerimonia d’apertura, la scanzonata autorevolezza di Londra ha risposto agli eccessivi nazionalismi di Pechino e Sydney con una sana presa di coscienza di una globalizzazione senza ritorno, che trasforma qualsiasi eccesso sciovinistico in un ridicolo boomerang. E per questo abbiamo così apprezzato l’autoironia della Regina che si paracaduta come una qualsiasi Bond-Girl, così come il giusto tributo a Tim-Berners-Lee (“l’inventore del Web”), e anche l’inesorabile incursione di Mr. Bean nella retoricissima pellicola di “Momenti di Gloria”.

Detto ciò, dal punto di vista dell’impatto sull’agenda mediatica globale, la XXXma Olimpiade suggerisce qualche riflessione a mente fredda. Da sempre i Giochi Olimpici dell’era moderna sono il termometro del funzionamento della macchina globale dei media e dei suoi riflessi condizionati. E se l’edizione del 1948 fu per Londra un’occasione per rimettere a posto “i pezzi del mondo”, in una città ancora attanagliata dalle ristrettezze economiche, quella del 2012 ha quasi voluto rappresentare le virtù di una società che risponde alla crisi con una soluzione a bassa mobilità sociale, una democrazia dove però (a differenza della turbolenta e imprevedibile Europa Continentale)  “ognuno sta al suo posto” e quindi “tutti tengono la barra a dritta, per perseguire l’obiettivo comune dell’uscita dal tunnel”.

Se non ci sono stati imprevisti, proteste, manifestazioni dissonanti, se la tanto criticata sicurezza ha funzionato a puntino è perché negli anni i britannici hanno imparato a gestire le valvole di sfogo della disuguaglianza economica e dei conflitti sociali  là dove i media non la possono più vedere. La lezione della Strage dell’Heysel è stata perfettamente assimilata: se riesci a “spostare” la violenza nelle strade, o comunque fuori dagli stadi, negli anni gli stessi violenti, indipendentemente dalla nobiltà delle loro cause, saranno scoraggiati ad agire perché sanno che nessuno li vedrà. Fino a rendere inutili gli steccati e le “zone rosse” che caratterizzano una società in cui c’è ancora qualcuno che non si è arreso alla strumentalizzazione politica del messaggio secondo cui “lo sport deve unire, non dividere”.

Dal punto di vista più strettamente sportivo, gli inglesi hanno compiuto un nuovo miracolo: quello di tornare a venderci “la verginità” dello sport olimpico contrapposta alla mercificazione di discipline tipicamente olimpiche come l’atletica o il nuoto, per non parlare di molti sport minori normalmente ignorati dai media. Negli ultimi anni le federazioni sportive internazionali erano riuscite a  trasformare in macchine da soldi manifestazioni iridate di ben minore tradizione (e qui l’atletica offre l’esempio più evidente), sottraendo attenzione e sponsor all’appuntamento olimpico, entrato in crisi negli anni 80 per i boicottaggi e la politicizzazione dilagante. Ebbene, pur avendo ormai inglobato tutte le discipline più smaccatamente professionistiche (a Rio 2016 ci sarà perfino il golf) gli organizzatori di Londra 2012 ci hanno fatto credere che le Olimpiadi sono non solo “pure”, ma persino “green” e “eco-sostenibili”. E a ben vedere solo gli inglesi, secolari campioni della più antica delle discipline sportive (l’ipocrisia, madre di ogni business fondato sulla comunicazione istituzionale) potevano portare a compimento una operazione così ambiziosa.

Eh sì, perché al di là della retorica roboante del “Citius, Altius, Fortius”, sotto il tappeto, di cosucce poco edificanti ne abbiamo viste parecchie anche quest’anno. Che dire delle brillantissime decisioni “di marketing” ad opera delle immarcescibili giurie che fanno il bello e il cattivo tempo in sport come i tuffi, la boxe, la ginnastica ritmica?  Vogliamo parlare, o è forse vietato, della sapiente regia mediatica intorno ai consueti casi di doping, che un invisibile bilancino ha tenuto al di sopra della soglia del “visto? Ci sono i controlli” e al di sotto di quella esiziale della credibilità della competizione agonistica? Cose viste e riviste, ma che a Londra sono state gestite come un fenomeno industriale, senza lasciare nulla al caso. Tanto ancora una volta saranno i numeri, e solo i numeri, a contare nel bilancio finale.

Del resto, se l’obiettivo è sempre e solo quantitativo, non c’è da sorprendersi che l’intera macchina olimpica abbia lavorato nella tipica logica di qualsiasi grande evento mainstream. O cannibalizzi completamente la conversazione globale, e per farlo c’è un solo modo (non esattamente “olimpico”), oppure hai perso in partenza. E con queste premesse, vien da sé che un blockbuster di queste proporzioni potesse essere mediaticamente sostenibile (con un bel numero verde in fondo al tasto excel, lo preciso per i più romantici) solamente in questo modo e in questi termini.

Lo avevamo capito non dico ad Atlanta ‘96, quando le Olimpiadi furono un lungo – e al paragone financo ingenuo – spot della Coca-Cola. Non dico a Los Angeles ’84, quando i giochi parvero poco più che una riedizione dei Trials Americani intrisi in salsa musical. No, lo avevamo capito a Roma 1960, quando – visto che ancora nessuno ci aveva pensato – si pose il problema dei diritti televisivi della manifestazione, che in modo molto naif qualcuno dava per scontato essere gratuiti, per il fatto di costituire, in prospettiva, un ingente patrimonio di emozioni per l’intera collettività umana. Ecco: quel principio, per esempio, poteva sul serio “ispirare una generazione”. Altri tempi, davvero.

 

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

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