Gli influencer-star del web e il pubblico che si rivolta contro

Gli strumenti per dire che questi qua che hai segnalato sono dei vip ci sono tutti. Su internet hanno millemila contatti su Twitter, ogni volta che postano su FB un qualsiasi status – anche, per dire, “adesso mi taglio le unghie” – fanno su decine di like, il loro Klout è astronomico.

Eppure. Eppure quando poi qualcuno li coinvolge in una campagna pubblicitaria, pagandoli o coccolandoli con omaggi e regalie mirate perché parlino bene di un prodotto o di un brand i risultati, uhm, non sono così eclatanti. Le vendite non s’impennano in maniera subitanea i il “mondo della rete” sembra reagire in maniera assonnata, quando non addirittura infastidita, perché alcuni dei followers abituati del “testimonial” mostrano persino una malcelata insofferenza, lo abbandonano e lo criticano. Insomma, niente boom, ma quasi il rischio di un effetto boomerang. I cosiddetti influencer della rete spesso sono protagonisti dell’ultima frontiera del flop: campagne pubblicitarie che non decollano o arrancano, ingranaggi che arpiono non sapere di volersi mettere in moto anche se sulla carta tutto fila.

Probabilmente i nostri nipoti, o almeno quelli di loro che faranno i pubblicitari, rideranno un giorno di questi primi nostri abborracciati tentativi per controllare la rete e capire i sistemi con cui far passare i messaggi.

Il fatto è che l’influencer medio sul web è una persona normale che è diventato noto in internet, ma spesso ha un pubblico che, pur seguendolo, lo considera “alla pari”. Legge i suoi status, si immedesima nella sua vita, che è una vita comune, come quella di tutti: si identifica nelle sue battute divertenti, apprezza quando si lagna della noia sul posto di lavoro, accetta consigli sulle ricette di cucina da provare, o sulle scarpe di moda finché, appunto, esse sono quelle che sembrano: consigli spassionati e casuali di uno come tanti, che alla sera torna a casa da un lavoro normale e dice:”uh che buoni i biscottiX!” perché ne ha davvero una busta in dispensa e lista sgranocchiando mentre twitta.

Il guaio dell’influencer che invece viene invece reclutato per una campagna pubblicitaria è proprio in primus la perdita, nell’immaginario dei suoi followers, di questa condizione di “persona comune”.

L’influencer-testimonial ha due sole maniere per gestire un eventuale contratto pubblicitario: dirlo apertamente (“Oh, raga, l’azienda X mi ha inviato gratis in omaggio il suo ultimo cellulare, che figata!”) o non dirlo (“Oh raga, ho per le mani l’ultimo cellulare dell’azienda X, che figata!”).

Nel primo caso i suoi followers abituali potrebbero sentirsi traditi, anche se in maniera inconscia: perché lui che riceve in dono cellulari per parlarne -o lei che viene invitata alle sfilate dell’ultima collezione autunno inverno e se ne esce con borse e scarpe in omaggio – non è più una persona comune con cui identificarsi, e quindi parte del suo appeal con il pubblico del web che l’ha seguito/a fino ad oggi si viene a perdere. Se invece decide di non dirlo, la ricaduta può essere anche peggiore: ci sarà sempre qualcuno fra i followers e fra i “nemici”. (in rete nascono competizioni o antipatie fortissime) che sarà pronto ad indagare e divulgare l’accordo firmato. Una volta scoperto, l’influencer avrà perduto per sempre l’unico vero capitale che possiede e che lo ha reso “personaggio” sulla rete: la sua credibilità.

Il problema quindi di una campagna web che si basi su influencer reclutati dalla rete ha dunque, per ora, questi due tipi di limiti: il rischio che la sua trasformazione in testimonial dichiarato di un brand alieni all’influencer la simpatia di parte del suo pubblico, e quindi vanifichi l’intento di far conoscere il marchio all’interno di una nicchia di pubblico ben determinato, e quello ancora peggiore che un influencer non dichiarato e poi scoperto si trasformi in un boomerang per l’azienda che l’ha nascostamente assoldato.  Dei due il primo è un inconveniente di cui tener conto, il secondo un epic fail di immagine. Per cui la scelta dell’influencer da contattare deve essere oculata: o si accetta fin dall’inizio di fargli parlare del marchio e dichiarare la sua collaborazione alla campagna, sapendo che questa  può avere risultati meno eclatanti di quelli programmati perché non tutto il suo pubblico condividerà la sua scelta di diventare testimonial, o se ne sceglie uno molto bravo a mentire e a nascondere le tracce. Ma deve essere veramente molto, molto bravo. Quasi più che a fare il testimonial.

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10 COMMENTS

  1. Mariangela complimenti!
    Una riflessione davvero interessante su un argomento che solleva sotto gli occhi di influencer e non un polverone di questioni.
    Credo che il tuo articolo farà contare fino a dieci sia chi propone un contratto, sia chi si mette in gioco pensando di accettarlo e magari aprirai nuove strade per la coccola del brand : )

  2. Concordo in pieno con Rachele! Nel mio piccolo sto cercando ipotesi per almeno aggirare questo problema.
    Quando qualcuno che seguo io posta una recensione o un link ‘sospetti’, io penso che, dopotutto, stare in rete tutto il giorno, deve pagare in qualche modo.
    Quindi non mi arrabbio, lo considero, diciamo, parte del gioco. L’importante è che non esagerino, che siano vari i brand proposti, e che, per il resto, i post continuino a coinvolgermi, ad emozionarmi, a divertirmi.
    Però magari io sono troppo tollerante…

  3. L’articolo mi piace ma credo possa essere ulteriormente approfondito aggiungendo un terzo livello ovvero la possibilità che l’influencer “in potenza” abbia la capacità di separare la parte umana/ludica da quella di “promoter” nello stesso profilo. Ci sono esempi di figure simili in Italia ed è sempre un piacere discutere con loro sia di “cavolate” che di cose “serie”. Poi sta a me decidere se sia il caso di diffondere e/o partecipare alla cosa ma questo non credo precluda il mio continuare a seguirlo. Resta il fatto che apprezzo infinitamente di più il soggetto che mi dice apertamente “guarda che mi hanno mandato da provare questo prodotto”. Onestà e trasparenza innanzi tutto

  4. Quadro perfetto. Mi è tornato in mente il paragone con una puntata dei Simpson, in cui il clown Krusty per tornare di moda inizia a fare spettacoli in cui spara a zero su tutto e tutti. Poi gli propongono una pubblicità e quando accetta i fan lo abbandonano.

    Se ti sei fatto un nome per le tue critiche, puoi spiazzare chi ti segue quando passi ai complimenti.

  5. “Me puzza che questi so’ ‘na gran sola!” (traduco per il mondo extraromano: “A naso direi che costoro danno belle fregature”). Questo il ruspante ma incisivo commento di uno studente, dopo un incontro dibattito con una società di “brand reputation”. Adesso Mariangela ci spiega, e soprattutto lo spiega alle aziende, che anche gli influencer, troppo spesso, “so’ ‘na sola!”.

  6. ]Mariangela … ordunque anche qui siamo alla ricerca della terza via.
    Immagino in futuro che le terze vie non avranno ragione di essere ricercate in quanto la stragrande parte degli “influenzati” si sentiranno sì alla pari con l’influencer ma poiché lo leggono e lo seguono implicitamente gli riconoscono “autorità”/reputazione per quello che scrive [ vale la pena di leggerlo e rileggerlo] e il fatto che su questa base di “autorità/reputazione” gli possa essere riconosciuta anche da terze part è un’ovvietà.

    Non è per contro ovvietà l’uso improprio/contarddittorio/NON trasparente
    che l’influencer può fare di questa sua “autorità/reputazione” .

    Non vogliamo forse una società fondata sulla meritocrazia? Allora se traggo vantaggio trasparente dalla mia reputazione perché devo essere addittato… al dito e non alla luna piena e sorridente proprio quella in cui ho fiducia?

    In fondo, per costruirsi una buona reputazione ci si mette una vita… vedersela franare per una cazzata/avida basta un nano secondo. Quindi occhio alle scelte individuali che si fanno. come sempre.

  7. Complimenti per l’analisi.
    Chiara, semplice e, almeno da parte mia, condivisibile in toto.
    Non avrei saputo esternare meglio il mio pensiero e la mia posizione.
    Grazie

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