Salvo Mizzi: le startup sono una strada per la crescita?

Salvo Mizzi è alla guida di Working Capital, il programma di innovazione e supporto alle startup di Telecom Italia, dal 2009. È Fellow della Kauffman Society, il maggiore centro di venture education e Innovation funding con sede in Silicon Valley.

Il fenomeno delle startup è al centro del dibattito di oggi sul futuro delle imprese in Italia; ci si chiede se siano davvero risorse per uscire dalla crisi o se la grande attenzione sul tema non sia altro che una grande operazione di distrazione mediatica.
TechEconomy ne parla oggi con con Salvo Mizzi che si occupa di startup  da molti anni, ancor prima che diventassero di “moda”.

1) Salvo Mizzi, oggi c’è grande attenzione da parte dei media nei confronti del fenomeno delle Startup. Ma con Working Capital sono ormai diversi anni – dal 2009 – che vi muovete per supportare questo mondo. Come mai tanta attenzione, solo oggi, verso questo mondo?

Appena una settimana fa si è chiusa la call per i Grant d’Impresa di Working Capital: abbiamo ricevuto quasi 800 progetti e altri 300 business plan per la parte Seed, un bisogno di attenzione e risorse evidente. I media descrivono quindi un fenomeno reale e quasi di massa. Fare impresa innovativa e immaginare il futuro che ancora non esiste sono adesso parte del DNA italiano. Per questo credo sia un movimento di lungo periodo, non soltanto l’emersione di un tema divenuto improvvisamente glamorous, come sostengono in molti. La centralità delle Startup risiede nella constatazione che oggi l’Italia deve voltare pagina e ripartire con vigore, in molti settori, anche quelli più classici o tradizionali (inclusi manifattura, agricoltura e PA). Siamo indietro in competitività e produttività ed è in atto una competizione per le risorse e le conoscenze – così come tra le nazioni o le aree continentali. La metafora della Startup esprime quindi il bisogno di ripartenza del Paese. E si basa sulle virtù della condivisione, sul coraggio dell’imprenditorialità (che non coincide con esaltazione acritica dell’imprenditore tout court), sulla capacità di fare network e sul senso dell’urgenza. A questo aggiungerei l’impatto “pop” di icone come Steve Jobs, Zuckerberg, Page e Brin: il successo planetario delle loro “startup” ha contribuito a infiammare l’immaginazione e generato progetti ovunque. Le Startup ci raccontano oggi questo: che l’Italia stessa è una Startup in cui tutti dobbiamo fare la nostra parte. In effetti, noi abbiamo iniziato nel 2009 a seguire questo percorso, e quando Working Capital è partito il quadro era a dir poco gelido, non inflazionato come oggi. Ma è molto meglio così. Come direbbero i Pink Floyd, bisogna scegliere tra “a walk on part in a war, or a lead role in a cage”. Niente gabbie, apriamo le finestre e agiamo subito.

2) Quali ritiene siano i punti di forza e di debolezza del “sistema italia” nel supporto all’innovazione e alla nascita di nuove idee imprenditoriali?

Gli assi portanti dell’innovazione sono molto semplici da individuare: talenti, idee, capitali coraggiosi e trust. Il sistema italiano (e lo dico con oltre tre anni di volo alle spalle e migliaia di progetti e business plan di ragazze e ragazzi di immenso talento da cui ho imparato moltissimo) è ottimo nella generazione di talenti e idee (infatti siamo il paese OCSE con la maggiore cessione di cervelli verso altre nazioni sviluppate); immerso nel cenozoico per quanto riguarda la capital formation e la disponibilità reale di capitale di rischio (i nostri numeri non alimentano né consentono scala e volume e non costituiscono massa critica per generare circolo virtuoso delle exit); in gran parte da costruire per quanto riguarda il trust, la fiducia reciproca tra tutti gli attori del sistema. Servono progetti e programmi su questi aspetti chiave. E un deciso intervento sulla accelerazione della diversità (attrarre talenti e capitali da Europa e Mondo), della formazione culturale e della apertura. Detto questo, il sistema Italia ha tutte le caratteristiche per giocare un ruolo importante, ma attenzione – bisogna volerlo fortissimamente. Sia a livello di infrastrutture abilitanti, sia nella capacità di investire su tutti gli assi di sviluppo. Diceva Enrico Cuccia, chi pensa esclusivamente al taglio dei costi si ritaglia solo una bara più piccola.

3) Se dovesse indicare le competenze o le potenzialit’ indispensabili per un giovane che intenda fare impresa e innovazione oggi in Italia, quali evidenzierebbe?

Secondo il Chairman della Kauffman Society, Phil Wickham, un imprenditore è un imprenditore: un misto di istinto, competenze, teoria dei giochi incorporata sotto pelle e velocità e sintesi ultra-razionale. Quello che puoi fare per loro è metterli nella condizione di lavorare al meglio, creare il giusto ecosistema e rimuovere gli ostacoli che impediscono il dispiegarsi delle capacità. Un giovane che vuole fare innovazione, più in generale, deve avere per prima cosa il senso del contesto: tecnologico, sociale, mediatico etc. E detto questo seguire il Principio Calabresi, formalizzato brillantemente dal Direttore de La Stampa. Se vuoi fare innovazione in Italia devi avere due motori e due progetti. Un motore/progetto è quello vero, e va tenuto sotto traccia. E uno finto da offrire in pasto ad una delle più diffuse categorie del nostro carattere nazionale: il cosiddetto “interdictory management”, quello che ha interiorizzato la fiaba della rana e dello scorpione dal punto di vista sbagliato. Così, ragionevolmente, argomenta Calabresi, possiamo formare Innovatori. In termini più economici, in Italia i transaction cost per creare impresa e innovazione sono troppo elevati e sono generati dalla mancanza di trust. Se vogliamo crescere bisogna ripartire da qui.

4) Durante il suo intervento a Expovision a Milano qualche tempo fa, lei ha parlato dell’importanza di superare la distinzione tra destra e sinistra per puntare su quella tra indietro e avanti: qualcosa di simile e’ emerso durante la conferenza di Monti per la presentazione dell’Agenda digitale, distinguendo tra un’Italia vecchia ed una nuova: e’ questo il segno che la politica sta imboccando la strada giusta, o dovremo ancora attendere per un miglioramento?

A dire il vero ne parlavo in un contesto specifico, in cui destra e sinistra perdono il loro tratto essenziale, storico e politico: cioè l’ambito dell’innovazione e della tecnologia, della rete e delle reti e delle nuove imprese in grado di sostenere il ruolo del nostro Paese nello scenario internazionale. In questo quadro, confermo, si tratta di decidere se vogliamo andare indietro o avanti, molto indietro o molto avanti. Nella nostra conversazione, fin qui, abbiamo toccato molti dei punti chiave. Ora possiamo aggiungerne un altro. Occorre decidere qual è il nostro destino, quale la nostra vocazione e il nostro ruolo in un mondo che sta vivendo una guerra di tipo nuovo, legata al dominio tecnologico, alle conoscenze, alla capacità di creare e attrarre talenti. Tutto questo richiede un senso profondo della partita in gioco – e può farlo solo la migliore politica, non certo la pura tecnologia. Agenda Digitale vuol dire Strategia (Digitale) per il Paese. Funziona solo se diventa un progetto di trasformazione complessivo, non una lista di pacchetti software.

5) Che ne pensa del lavoro della Task Force del Ministero dello Sviluppo Economico: è la strada giusta per promuovere l’innovazione attraverso le startup?

Sì, direi che il primo passo – tra mille critiche e polemiche spesso pretestuose e inutili – è ben fatto. L’innovazione naturalmente non è solo startup e i membri della TF, molti dei quali sono amici di vecchia data e della cui onestà intellettuale non possiamo neanche lontanamente dubitare, lo sanno benissimo. Ma infine, se decidiamo di volere qualcosa e rinunciamo a non volere, bisogna evitare di fare la fine dell’Asino di Buridano. Che nel nostro caso, a furia di volere ossessivamente discutere se e come venisse prima la biada delle startup o l’erba medica della manifattura, se fosse giusto chiamare Tizio o interpellare Caio, si acconciò tristemente a morir di fame. Ecco: questo grazie alla TF lo abbiamo evitato. E ora ci mettiamo volentieri al lavoro. Ricordandoci che sulle cosiddette startup poggia oggi il 20% del PIL americano, oltre che un nuovo softpower planetario.

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