Uno dei temi emersi dopo la pubblicazione del mio precedente post sul tema Big Data ha riguardato il “fattore umano“, elemento imprescindibile quando ci muoviamo in quest’ambito in almeno tre sensi:
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Come soggetto che analizza, dà un senso e trasforma gli insights derivanti dai big data in misure, KPI, modelli
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Come oggetto dell’analisi soprattutto nel suo ruolo di nodo di relazioni e di portatore di comportamenti
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Come destinatario delle analisi e beneficiario di queste ultime
Il primo caso corrisponde a quello del già citato Data Scientist, di recente “profilato” in modo eccellente da Thomas H. Davenport and D.J. Patil nell’articolo “Data Scientist: The Sexiest Job of the 21st Century” pubblicato sul numero di ottobre di Harvard Business Review. Secondo gli autori* – rispettivamente un professore ed un Data Scientist, non a caso – “più di ogni altra cosa, ciò che i Data Scientists fanno è fare delle scoperte mentre nuotano in mezzo ai dati. E’ il loro modo preferito di navigare il mondo che li circonda. A loro agio nel regno digitale, sono capaci di dare una struttura ad ampie quantità informi di dati e di rendere possibili le analisi“.
La prima caratteristica del Data Scientist, dunque, è quella che nell’articolo scorso e su TechEconomy News ho definito come capacità di creare senso a partire dai dati stessi e di renderli intelligibili in modo significativo. Ruolo e valore dei Data Scientists risiedono primariamente qui e sono loro che “**identificano ricche risorse di dati, li mettono in relazione con altre, potenzialmente incomplete, risorse di dati e mantengono pulito il set di risultati“.
Sostanzialmente dunque fungono da connessione tra una massa indistinta di semplici dati ed una concreta e continua strategia decisionale basata su di essi. Come scrivono Davenport e Patil “***in un contesto competitivo in cui le sfide continuano a cambiare ed i dati non cessano di fluire, i Data Scientists aiutano i decision makers a spostarsi da analisi ad hoc ad una continua conversazione con i dati“.
“Conversazione” è decisamente la parola chiave da tenere a mente quando si pensa al Fattore Umano in ambito Big Data. Dovete pensare infatti a questi dati e a tutti coloro che lavorano con essi o a partire da essi come parti di insiemi biunivoci: nel primo vi sono i dati che offrono delle informazioni recepite dai Data Scientists (insieme 2) e da loro smistate ai sottoinsieme in cui rientrano i decision makers e tutti gli altri soggetti interessati.
Se questo flusso si fermasse qui il Data Scientist domani leggerebbe annunci di lavoro e le aziende avrebbero perso tempo e denaro a raccogliere questi dati.
I Big Data non sono un self service. I dati senza interpretazioni non creano strategia.
Bisogna allora che il processo riparta in senso inverso: dal monitoraggio dei risultati delle strategie suggerite a partire dalle analisi condotte e dai modelli elaborati, bisogna generare nuovi modelli di analisi, ristrutturare i dati a disposizione in modo più efficace e rileggerli alla luce degli effetti generati.
In questo senso, il Data Scientist è anche un esperto di fine tuning, oltre che il “lavoro più sexy del XXI secolo”, scettro che Hal Varian – Chief Economist di Google – aveva assegnato agli esperti di statistica.
Parte dal lavoro di un Data Scientist consiste anche nella Social Network Analysis che può dare indicazioni significative sia sulle relazioni tra utenti che interagiscono come nodi all’interno di una specifica rete, sia in termini di identificazione di schemi comportamentali (e dunque, in ultima analisi, può aiutare a realizzare analisi di tipo predittivo).
Nel primo caso, ad esempio, è interessante analizzare il modo in cui gli utenti si aggregano intorno a determinati topic o diffondono le notizie all’interno del proprio network. Ancora più interessante se a questo semplice, primo step di Social Network Analysis si aggiunge una più profonda indagine sulle identità che consenta di identificare nel tempo comportamenti, interessi e relazioni ricorrenti.
Non solo, sono state condotte anche numerose analisi relative al modo in cui le persone si aggregano in determinati posti e al significato che un cambiamento del normale equilibrio può rappresentare: crimini, traffico, emergenze possono essere rappresentata e visualizzate anche come cambiamenti di densità dei soggetti presenti in un certo posto.
E’ il senso di alcuni esperimenti legati alle smart cities che ho citato più volte – non ultimo a Pisa durante l’Internet Festival – e che mirano ad esempio a migliorare la gestione del traffico nelle città o dei servizi e delle infrastrutture in caso di disastri naturali. Téléfonica – con il suo Dynamic Insights, servizio mirato ad offrire analisi a partire dai big data – ha rilasciato non a caso come primo prodotto per aziende e piccole imprese “Smart Steps”, per misurare, comprendere e confrontare i fattori che influenzano la presenza o meno di persone in un determinato posto.
Siamo già pienamente nel terzo ambito: come possono i big data offrire un concreto apporto mirato a migliorare la vita di ciascuno?
L’esempio che amo di più è legato all’ambito della salute, come emerso nel report realizzato da Dr. Bonnie 360° che evidenzia come l’ampia disponibilità di dati su malati, farmaci e cure possa dare indicazioni significative da tradurre in attività di sensibilizzazione, miglioramento dei servizi, prevenzione e naturalmente ricerca.
Agenti interpretanti, oggetti di analisi, destinatari delle strategie
Tutti ruoli che rendono il fattore umano parte integrante dell’universo Big Data e che sono alla base di quella scalabilità che contraddistingue il Big data approach, che è anche e prima di tutto un modo di pensare e di avvicinarsi ai dati per trarne indicazioni significative.
Senza questo elemento avremmo a che fare con una massa informe di dati.
Credo che il termine Conversazione renda bene l’idea del rapporto tra il data scientist e i dati stessi. Un sistema che se attivato correttamente consente all’analista di imparare dai dati (quello che tu definisci “capacità di creare senso a partire dai dati”) e di moltiplicare le capacità interpretative del data scientist fornendo sempre più senso agli stessi dati. Questo approccio (non nuovo nella statistica, perché di questo si tratta) può generare sviluppi teorici notevoli vista la sempre crescente disponibilità dei dati che consentirà di “renderli intelligibili in modo significativo”. E questo aspetto di contributo teorico alle discipline di analisi dei dati è un aspetto non secondario dei benefici dei big data. Complimenti per la chiarezza dell’articolo, come sempre
Grazie a te per il feedback: appropriato ed interessante come al solito Fabrizio!
Esatto: si tratta proprio di statistica e delle possibili evoluzioni che possono svilupparsi in quest’ambito grazie ad una maggiore disponibilità di dati e ad una diffusione di professionalità specifiche che a competenza statistiche appunto, affiancano capacità di analisi, marketing e comunicazione.
Bravissima Emanuela. Seguo i tuoi post con interesse da tempo, e non tradiscono mai le mie aspettative. Il topic Big Data, poi, è estremamente interessante, e confido nel fatto che continuerai a parlarne e che a questi primi articoli sul tema ne seguiranno molti altri. I miei complementi.
Grazie Vera!
Ti garantisco che questo post non sarà di certo l’ultimo… 😉