Ivana Pais: “Chi cerca lavoro va su Facebook, chi seleziona su LinkedIn. E le donne nelle startup latitano”

“Il crowdfunding non è della folla, ma della comunità”

Ivana Pais insegna Sociologia economica nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano. Studia i social network e le comunità professionali digitali.
Collabora regolarmente con il blog “La nuvola del lavoro” del Corriere.it.
Ha scritto “La rete che lavora. Mestieri e professioni nell’era digitale”, Egea 2012.

Che provi o meno a negarlo, e che sia più o meno propenso a fare i conti con la sua natura, l’essere umano non ha scampo: è un animale sociale.
Non sarà la scoperta dell’acqua calda, ma quando si pensa a certi contesti, le reti di relazioni sembrano essere solo una delle tanti variabili da considerare. E invece, sono la prima. Prendi il crowdfunding, il meccanismo di finanziamento dal basso, per il quale si chiede alle persone di corrispondere una somma di denaro per supportare un progetto, un’iniziativa, la realizzazione di un prodotto: “Ciò che si muove intorno a questo meccanismo, a più a che fare con le dinamiche relazionali, piuttosto che con quelle finanziarie”.

Lo spiega Ivana Pais, docente di Sociologia economica nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano e collaboratrice del blog “La nuvola del lavoro” del Corriere.it. Sabato 27 ottobre modererà l’evento Crowdfuture, Conference e Workshop interamente dedicate al tema, che avranno luogo a Roma.

Quindi anche il finanziamento è sociologia?

Riguarda meccanismi sociali e di conseguenza anche sociologici. A me interessa vedere come intorno ad un progetto si costruisca una comunità, che infatti non è una folla (crowd): non si tratta di singole persone che in modo autonomo partecipano a qualcosa, quanto piuttosto di una comunità.

Dovevano chiamarla community-funding….

Co-funding, perché no. Dopo tutto, è lo stesso meccanismo per il quale anni fa chi voleva avviare un’impresa andava in giro a chiedere soldi alle persone vicine e non. E’ la comunità che attiva la rete, e lo snodo si trova nel punto in cui il legame di un gruppo attiva un gruppo più ampio. Questo, a sua volta, modifica il progetto originario.

E se lo modifica troppo?

Il processo decisionale resta nelle mani di chi lo detiene all’inizio, ma si possono ricevere dai finanziatori stimoli e consigli utili, specie nel caso in cui il finanziamento ha come merce di scambio l’avere voce in capitolo, e quindi al crowfunding corrisponda il crowdsurcing.

Quali sono i punti di forza, e quali invece i talloni d’Achille di questo sistema?

In un momento di grande difficoltà, specie per i meccanismi di accesso al credito, sicuramente ha il pregio di rappresentare una via alternativa, che si muove secondo logiche orizzontali e partecipative. Le debolezze sono legate principalmente al fatto che siamo all’inizio e che, almeno in Italia, ci si debba muovere secondo vincoli normativi che non rendono le cose semplici.

Su quali leve emotive dovrebbe agire chi chiede di far finanziare un proprio progetto ad una comunità che non conosce?

Eh, la vera sfida sta proprio lì. Di solito funziona il meccanismo di identificazione e partecipazione.

Insomma, buon marketing.

Di solito vince chi racconta storie, più che prodotti.

Spostiamo le relazioni su un altro dei suoi campi di competenza: lei ha scritto “La rete che lavora. Mestieri e professioni nell’era digitale” (Egea 2012): quanto contano, nella ricerca del lavoro in Rete?

Quando si cerca lavoro, le relazioni contano, a prescindere dalla rete. Internet ha solo il potere di rendere visibili tali relazioni, allargarle e renderle trasparenti. Se solo la usassimo di più. Non abbiamo ancora fatto il salto.

Ovvero?

Una recente ricerca che ho fatto dimostrava un problema lampante: chi cerca lavoro va su Facebook, e chi seleziona va su LinkedIn. L’altro giorno ero a presentare il volume a Sondrio, e una recruiter mi ha detto che in tutta l’intera provincia, solo 3 erano le persone iscritte a LinkedIn.

Ok, abbiamo un problema. Cosa si deve fare quando si cerca lavoro online?

Innanzitutto, capire come la rete ci mostra. Googlarsi, per partire da sé e capire se l’immagine che la rete restituisce di noi, corrisponde a quello che realmente siamo. Secondo, utilizzare le dinamiche della rete, anche con i “secondi contatti”. E una cosa che dico sempre ai miei studenti, è di frequentare i gruppi di discussione. Certe volte partecipare ad un forum vale di più di uno stage. Si apprende la microlingua di un settore, si vedono i professionisti all’opera nel loro campo, e lo studente, da par suo, se ha fatto una tesi su un argomento, può condividere quello che ha studiato facendo risparmiare tempo a chi cerca informazioni. Si crea una relazione, ed è 100mila volte meglio di un cv.

Donne e innovazione: come siamo messi?

Ho appena fatto una ricerca che ha fatto emergere un dato un po’ deludente: nelle start up digitali, le donne solo solo l’11%. Un po’ pochine. La presenza nell’Ict è piuttosto limitata, e questo è un peccato perché le tecnologie relazionali sono molto vicine all’attitudine femminile.

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