I big della politica e le “regole” dei social

Sostanzialmente, se ne strafregano. I big della politica delle regole dei social, intendo. Fra le discese, salite e ricomparse di questo ultimo mese trarre una lezione è duro, ma se c’è una cosa che appare evidente è che in Italia i grandi della politica (da Monti a Berlusconi) quando arrivano nel mondo della rete sono poco innovativi. E però funziona.

Prendiamo il caso di Monti, anzi di@SenatoreMonti, account creato su Twitter un paio di giorni dopo la “salita” alla politica dell’ex Presidente del Consiglio. Come già ha fatto notare Stefano Epifani su questo stesso portale, la campagna mediatica di Monti viola tutte le regole non solo del social media marketing, ma parrebbe anche del normale buon senso: nonostante nel suo staff Monti possa contare su gente che di web ne mastica parecchio, il sito approntato era per alcuni versi imbarazzante: aperto senza manco un post, è rimasto sguarnito per quasi un giorno di notizie; una volta postata la famosa “Agenda”, mancavano i riferimenti agli account su Twitter, tanto che per qualche ora c’è stata addirittura una gran confusione con un account fake. E lasciamo stare il pasticcio dell’autore (vero o presunto) dell’Agenda stessa, identificato in Ichino grazie ad uno stratagemma da ragazzino di terza media.

I social media strategist e chiunque ne sappia un acca di web si sono messi le mani nei capelli di fronte a quello che sembrava un epic fail. Ma tale “disastro” in realtà non ha causato sconquassi o crisi di coscienza nella maggioranza dei followers del senatore: l’account di Monti è diventato subito seguitissimo, anzi, ci sono persino persone che si sono iscritte a Twitter per leggerlo, e la grande indignazione è rimasta confinata ai mugugni di qualche esperto.

Stessa cosa dicasi per Berlusconi. Da anni sulla rete non ne imbrocca una: siti web imbarazzanti, poco fruibili, per giunta che cambiano nome persino più spesso dei partiti che fonda; una strategia di comunicazione sui social media inesistente e confusa, anche perché Berlusconi non ha mai fatto mistero che è la tv il suo campo di azione. Negli ultimi giorni un account su Twitter che prima pareva fake, poi si è detto aperto da un gruppo di volontari, e ha avuto un picco di followers per lo meno sospetto, arrivando in poche ore a 70.000 contatti.

Ma anche il tanto sbandierato Beppe Grillo, che del web ha fatto il suo campo d’azione, non è che poi su Twitter sia attivissimo: si limita infatti a rimbalzare i post del suo blog, che è da sempre anche quello abnorme rispetto alle regole delle rete: è più che altro un universo “chiuso” frequentato dai suoi supporter, molti dei quali, contrariamente a quanto si dice, non sono affatto navigatori incalliti o “draghi” della rete. Si limitano in pratica a frequentare il sito di Grillo, leggere solo quello e al massimo alcuni siti satellite e forum aggregati, senza interagire granché con tutto il resto della rete.
Eppure. Eppure campagne così sballate, apparentemente mal combinate, hanno successo: i supporter (vecchi o conquistati) del personaggio politico ci sono, il messaggio arriva, i giornali abboccano a questi social usati solo come megafoni o alternativa economica al lancio di agenzia.

A questo punto, mi verrebbe da fare una riflessione: forse queste campagne mediatiche che fanno tanto arricciare il naso agli esperti (e innovatori) del social marketing in realtà per l’Italia sono azzeccatissime. Nel microcosmo italiano il web è ancora un oggetto misterioso per la maggioranza della popolazione: le gente comune, anche se sta qualche ora al giorno su internet, la usa come appendice dei mezzi di comunicazione tradizionale: cioè, in pratica, va a cercare su internet quello che ha saputo essere lì dalla tv. Il personaggio già famoso (Berlusconi, Monti o persino Grillo) può usare il web come usava la tv: un megafono per le sue dichiarazioni. Il pubblico medio del web italiano in  fondo non chiede l’interattività perché non ci è abituato. Dal vip vuole che si comporti come si è sempre comportato prima, cioè facendo cadere dall’alto proclami che al massimo si condividono o si criticano, ma non si discutono sul momento e alla pari.

Se il web può essere quindi una straordinaria occasione per “giovani” politici che lo sanno usare (o imparano a usarlo) di mettersi in luce ed acquisire un peso prima di avere a disposizione i mezzi di comunicazione tradizionali (pensiamo ad un Civati, per esempio), per i politici affermati il web è un’appendice ed è giusto che sia così, perché anche il loro bacino di potenziali elettori ha la stessa identica mentalità e questo si aspetta. In italia funziona questo approccio, l’altro, quello che apparentemente sembrerebbe il più “corretto” per l’etichetta dei social, non coinvolge la massa del grande pubblico.

Se da un lato questa considerazione può essere sconfortante, in quanto è un portato di quanto l’Italia “media” sia in ritardo, a mio avviso, nel modo di approcciarsi alla rete, dall’altro è un dato da tenere ben presente nell’impostazione delle campagne elettorali. Da noi non siamo ancora pronti, e una impostazione che fa arricciare il naso agli esperti è quella che invece funziona.

Teniamolo presente, anche se magari non ci fa piacere.

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1 COMMENT

  1. Sono in buona parte d’accordo con te. Nella mia analisi linguistica dei tweet di 40 politici italiani nell’arco di 4 mesi (http://sspina.blogspot.it/p/openpolitica.html), alcuni parametri come la dialogicità o l’uso di un linguaggio valutativo hanno ottenuto risultati abbastanza buoni. Questi risultati sono però dovuti al fatto che il campione comprendeva anche politici giovani, che sanno usare i social media (Civati, Sarubbi), e che hanno decisamente contribuito ad alzare la media.

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