E’ lì, di fronte a te. E’ pure un cliente di quelli buoni, cioè di quelli che pagano, perché di soldi ne ha a vagonate e quando vuole li spende pure senza troppi problemi. Insomma, è il cliente ideale, che di questi periodi, poi, è come dire l’Araba Fenice. Il problema è che è arrivato con un sorriso e dicendo: «So già quello che voglio.» E quando dicono così, son cavoli amari, ragazzi, perché il cliente che è convinto di sapere quello che vuole è persino peggio di quello eternamente indeciso e che non sa nulla.
E lui vuole Twitter. Anzi, vuole Tuàitter, come le chiama lui, perché il nome è inglese e quindi ha deciso che si pronuncia così, dato che la sua insegnante di inglese del corso serale al centro civico gli ha sempre detto che la “i” in inglese si pronuncia “ai”.
Quindi vuole Tuàitter: vuole un account subito e poi vuole milioni di seguaci e tutti che retwittano i suoi hashtag, che lui pronuncia hasstak come Ezio Greggio pronunciava Hass Findanken al Drive In. E tu sei lì, che con santa pazienza e grande cautela (è un cliente, ed
è un cliente che paga, non dimentichiamocelo) devi cercare di capire per prima cosa chi gliel’ha messa in testa, ‘sta cosa di Tuàitter, che è una operazione fondamentale per decidere come muoversi sul fronte della dissuasione dissimulata. Perché se ancora ancora a suggerire
Tuàitter è stato un figlio o un nipote, per quanto possa essere l’affetto per il pargolo qualche margine per convincerlo c’è; ma se l’idea putacaso viene da una nipotina che è imparentata con lui quanto Ruby con Mubarak, bisogna mettere in conto che invece è una battaglia perduta in partenza.
Quindi provi a fargli capire che Tuàitter (ormai lo chiami anche tu così, non puoi mica dirgli la pronuncia giusta, sennò lui pensa che non sai l’inglese e sei un incompetente) è un po’ più complicato che aprire un account, poi dentro all’account bisogna postare dei contenuti, che devono essere originali e simpatici, se vuoi che la gente ti segua, e, nel caso di una azienda, anche coordinati con quello che viene postato sul sito dell’azienda e sugli altri social. Ma lui ti guarda, scuote la testa e dice: «Ma a me dei contenuti non importa, ci pensi lei, a me basta che poi ci seguono in molti.»
«Eh certo, ma sa, quelli vengono se si postano cose interessanti, li si conquista poco a poco, non è che si possa pensare di fare il botto subito, è un rapporto che si costruisce con il tempo persino per i brand più grandi…» «Vabbe’ ma io voglio che mi seguano in molti, così vendiamo.» ripete lui.
«Sì, certo – ricominci – ma sa bisogna anche tenere conto che non sempre i followers si trasformano in clienti, perché è una cosa più complicata, il brand su twitter (ops, Tuàitter!) ci deve stare ma perché è una vetrina, non è detto che abbia un ritorno immediato…»
«Sì, ma io voglio molti fòllouer, ce ne hanno tutti a milioni!»
E tu sorridi, sospiri, capisci che è inutile, gli dici di sì, certo, li avrà, te ne occuperai tu, dei contenuti e dei followers.
E ti viene da ripensare ad un aggiornamento della vecchia battuta di Moretti: «Ve li meritate, i falsi followers, ve li meritate!»
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