Dalla passione al lavoro: la game designer Marina Rossi

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Marina Rossi è cofondatrice e producer di Urustar , uno studio indipendente di giochi con sede a Genova

Marina Rossi, @redpill su Twitter , è cofondatrice e producer di Urustar , uno studio indipendente di giochi con sede a Genova, fondato nel 2010 e attualmente gestito dai “magnifici 4”, due donne e due uomini. “Il mio lavoro principale è quello di far funzionare le cose – afferma Marina – e facilitare tutti i meccanismi affinché il gioco venga finito con qualità e tempi definiti”.

Marina coltiva la passione per l’informatica, diventata impresa, insieme a quella per i videogiochi ovviamente. Una cresciuta a “videogiochi e Internet a 56k” insomma. “Sono sempre stata affascinata dai giochi – dice la nostra game designer – sebbene per molti anni non l’abbia mai considerato come un settore professionale. Internet invece ha dato sfogo alla mia curiosità e voglia di conoscere. Durante la scuola elementare adoravo fare ricerche online e farle poi diventare kitsch grazie a immagini e titoli realizzati con CorelDraw”.

L’unione tra studio e ironia, divertimento e professionalità. Un’unione facile per Marina che è cresciuta, grazie ad un fratello più grande di dieci anni, in un ambiente super-tecnologico. “Sono entrata in contatto da piccola con lo Spectrum – racconta – di cui però ho solo vaghi ricordi. Il mio primo vero contatto con la tecnologia è stata l’Amiga 500: a tre anni giocavo a Bubble Bobble, a cinque scrivevo su WordPerfect e facevo disegni con Deluxe Paint, disegni che mia mamma poi dava in pasto alla stampante ad aghi per archiviarli, confidando forse in doti artistiche che non ho più sviluppato. Da lì in poi è stata una continua successione di personal computer, passando anche dal 486, al Pentium II, ai primi pc assemblati e a qualsiasi nuova tecnologia e gadget hi-tech”.

Ma che percorso di studi serve per fare quello che fa Marina?

“La mia formazione è poco specializzata: ho frequentato un liceo scientifico e un’università a metà strada tra studi umanistici e informatici che mi ha permesso di approfondire aspetti di psicologia e sociologia senza trascurare basi di programmazione, database e web design. Per il mio percorso è stato fondamentale aggirare la contrapposizione tra scienze umane e informatiche che regola l’università italiana e tracciare così un percorso professionale trasversale”. Al di là del percorso di studi è fondamentale aggiornarsi in modo costante. “Consulto regolarmente i devblog (i blog che seguono passo passo lo sviluppo di progetti, ndr) e i postmortem (articoli che descrivono successi e fallimenti di un gioco pubblicato, ndr) perché affrontano ogni aspetto del game development. Ci si ciba insomma a pane e feed RSS (circa trecento le fonti selezionate da Marina) e contenuti che arrivano via Facebook e Twitter, appositamente filtrati.

Per chi volesse emulare, questi i 3 consigli di una game developer

Fai un gioco. Non c’è nulla di più utile che mettersi in testa di realizzare un gioco, piccolo, con gli strumenti che si hanno a disposizione. Può essere un gioco da tavolo, di carte, uno scenario di un RPG, un mod di un FPS. Vale tutto.
Presentati. Forse può sembrare scontato, ma mi sono accorta che spesso chi ha voglia di fare giochi tralascia la comunicazione e non si sente in armonia con i social media. Invece bisogna sforzarsi di esistere online (blog, Facebook, Twitter, LinkedIn sono la base) e offline (eventi e incontri anche locali se non puoi investire tempo e soldi in incontri internazionali). Devi conoscere le persone che costituiscono questa industria e iniziare a farti conoscere da loro.
Trova la tua guida. Può essere una persona in grado di motivarti (la cosiddetta figura del mentor), possono essere corsi online o libri di game design. La tua guida è una fonte di ispirazione, è l’obiettivo scritto su un post-it attaccato al frigo, è la curiosità nei confronti di tutto ciò che ti circonda, è la voglia di creare qualcosa.
Se questi non bastano, ci sono tanti altri consigli per diventare game developer, noi ne abbiamo raccolti un po’ nella guida online “So, You Wanna Be a Game Designer?” .

E questi i 3 ostacoli incontrati e il modo di passare oltre…

La paura di parlare in pubblico. In realtà non è solo questione di parlare in pubblico, ma anche il disagio di mostrarsi di fronte a una telecamera. Non posso dire di averlo completamente superato, ma ho fatto molti passi avanti. Avere uno studio indipendente significa doverci mettere la faccia e non c’è modo migliore di superare una paura se non affrontarla. Le videointerviste, le presentazioni pubbliche e le lezioni all’università mi hanno permesso di crescere. Nel tempo libero mi è stato utile allenarmi con SingStar: ho imparato a cantare a squarciagola senza temere le brutte figure con amici (e vicini di casa!).
La mancanza di finanziamenti. Il nostro studio non è una start-up nel senso comune del termine, non abbiamo un servizio unico che può attirare finanziatori e che può essere monetizzato, ma abbiamo competenze, visione e tanti ambiti in cui possiamo intervenire. Il nostro approccio in questi anni è cambiato, abbiamo trasformato le nostre debolezze in punti di forza, cercando un equilibrio tra i progetti autofinanziati e i lavori di game development e consulenza per i nostri clienti.
La scarsa organizzazione interna. Quando sei in un team piccolo che si vede ogni giorno pensi che non sia necessario avere regole di organizzazione e di comunicazione interna e al “tanto lavoriamo gomito a gomito, basterà quello, no?” si deve rispondere No. Sottovalutare dettagli è il primo passo verso il caos che ti fa perdere e sovrascrivere file importanti. Complessivamente ho impegnato diversi mesi di lavoro per definire regole di file naming condivise, una routine settimanale di lavoro scandita e misurata da strumenti di produttività digitali (Basecamp https://basecamp.com) e cartacei (adoriamo David Seah http://davidseah.com). Questo ci permette anche di avere un workflow da condividere anche con i collaboratori esterni.

Last, but not the least: un libro che ha cambiato il tuo modo di pensare

Emotional Design” di Donald Norman perché mi ha insegnato a pensare agli oggetti come a veicoli di emozioni. Già all’università mi sono interessata al design degli oggetti e delle interfacce come relazione tra chi progetta e chi fruisce. Credo sia stato fondamentale per fare poi un passo verso i giochi, grandi sistemi di interazione e generatori di emozioni per eccellenza.

Gioco, emozione, ironia, studio, passione. Il lavoro di Marina è questo. E le donne che volessero somigliarle possono farlo “mettendosi in gioco”.

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