La disabilità come driver di innovazione. Verso il design for all

Dieci anni fa fece il giro del mondo una sorta di slogan internazionale delle persone con disabilità: Nothing about us without us, una dichiarazione che da allora echeggia come moderno manifesto di emancipazione. Quella presa di parola così forte rende ancora oggi disabilityevidente quanto la disabilità sia una presenza che provoca al nuovo: nelle competenze relazionali, negli assetti organizzativi, nella dotazione tecnologica di un’impresa o di una PA, nella formazione tradizionalmente pensata e lo fa perché richiede – e di diritto può e deve esigere – strategie che scardinano le risposte consuete di fatto costringendole a spostarsi verso l’innovazione delle idee e dei processi. E, con naturalezza, anche verso l’innovazione tecnologica.

Il rischio che un’aspirazione alta resti una dichiarazione d’intenti certo permane, ma quella frase è “affissa” alle pareti della quotidiana modernità attraverso il protagonismo stesso delle persone disabili reso sempre più possibile, e visibile, dalle reti digitali e dalle tecnologie accessibili. Fra le persone con disabilità ci sono infatti moltissimi prosumers di contenuti, valori, servizi, informazione accessibile, digital authors fra i più attivi e competenti muovendosi in una modalità multiaccessibile con cui esprimere, volendo senza limiti di accessibilità, la propria identità reale.

Si può verificare che le persone disabili hanno consumi culturali, profili relazionali, sociali e lavorativi fortemente pro-attivi e propositivi ma perché ciò si riveli pienamente occorre anche un contesto abilitante, pronto a ripensare gli standard, vera briglia deterrente al cambiamento. Già perché quando si ragiona sulla “misura della normalità” occorrerebbe pensare che di fatto si sta cercando una sua media standardizzata, sopra o sotto la quale tutto è fuori. La disabilità, vista così, è un fuori standard del tutto eccezionale, una sorta di “fattore interveniente” erroneamente ritenuto raro fra i lavoratori, fra gli utenti dei servizi e dei prodotti e per questo frequentemente escluso da ogni progettazione. Di fatto ciò pone ai margini anche grandi fette di consumatori dato un mercato che non li contempla e, dunque, non li sa soddisfare non intravedendoli nel proprio simulacro di target, per riprendere Umberto Eco con il “simulacro del lettore”.

E’ evidente quanto una modalità d’epoca che sposta le azioni, il lavoro, parte del reale nelle maglie digitali sia favorevole alle persone disabili, anche solo da un punto di vista logistico, naturalmente salvaguardato il fatto che non tutto può esser vicariato da azioni digitali. Le interazioni vis à vis sono sempre la chiave di ogni comunicazione efficace, anche mediata. Ma l’ICT è ineludibile mediatore di processi, azioni, servizi, informazioni e le persone sono come degli “hub” uno dell’altro in una reticolarità talmente interconnessa e bidirezionale da porre le basi di un largo azionariato nel collaborative environment che cresce al crescere delle competenze e della partecipazione dei propri utenti, dei propri “nodi” di rete.

La materialità digitale fruibile in remoto è dunque essenziale alle persone con disabilità e va introdotta in un contesto che la valorizzi, a partire dall’accettazione di un ausilio informatico come opportunità e potenzialità che contribuisce all’autonomia restituendo o ampliandone rilevanti porzioni di accesso: si tratta di un aspetto talmente rilevante da far diventare le “tecnologie assistive” quasi un sinonimo di “tecnologie per l’autonomia”, un mezzo che appunto consente di mediare la realtà facendosi “interfaccia sociale”.

Se conformemente con l’approccio internazionale elaborato dalla Word Health Assembly nel 2001 con l’“ICF” (International Classification of Functioning, Health and Disability) la disabilità è non un attributo della persona ma una situazione che nasce dal divario tra lo stato di salute di quel soggetto e i fattori contestuali dell’ambiente in cui la persona vive, è allora doveroso capire se quei fattori siano variabili di progettazione, barriere removibili: così è per varie interfacce dell’ICT, per molti contenuti della Rete, per molte porte digitali e non, per numerose opportunità professionali, per la maggior parte dei servizi e delle informazioni.

Con la ricchezza di tali ragionamenti, si può ben comprendere come la disabilità non è un modo di essere, una delimitazione dell’identità o la sua stessa, riduttiva, descrizione. Si tratta piuttosto di un “ modo di stare”, una situazione – talvolta transitoria a volte no – che si interfaccia con tutto quanto circonda l’individuo: dalle relazioni interpersonali a quelle professionali, dal tempo libero alla cura di sé, dal know-how, ai consumi culturali e mediali, ai desiderata, alle difficoltà, al lavoro. Sono dunque le attitudini, le capacità e le possibilità di una persona, anche nel suo profilo lavorativo e social, a dover entrare nel gioco delle parti. E’ allora chiaro che la disabilità è una modalità che declina sì un modo di stare ma non di essere persona, né di essere lavoratore. E sul “modo di stare” si può intervenire con variabili progettuali innovative.

 group1Ecco uno dei punti nodali in cui la disabilità costringe a riscontri inediti candidandosi a via di innovazione: occorre pensare “per tutti e per ognuno” adottando il design for all come approccio ri-organizzativo. La progettazione universale è una soluzione per mutare il punto di vista perché avvicinandosi a progettare al cosiddetto “99esimo percentile” può far transitare dalla standardizzazione utile alla maggioranza alla profilazione delle differenze utile a ciascuno perché ognuno ne può essere ricompreso nelle proprie esigenze di accesso e presenza sociale: nelle tecnologie come nei servizi della PA, nelle prassi dell’accesso al lavoro come in ogni contesto della partecipazione democratica e del diritto-dovere ad una cittadinanza attiva. Solitamente si parla di barriere architettoniche che ostacolano l’accesso ad un palazzo, una scuola, un’azienda, ma vi sono barriere sensoriali che ancora più impediscono concretamente l’accesso ai contenuti mediati e che possono ostacolare persino la possibilità di assumere incarichi di lavoro o di esercitare un diritto. E’ per esempio necessario che ogni bando pubblico sia diffuso in maniera accessibile, che un sito di una PA preveda sempre file audio scaricabili e video sottotitolati, la variazione dei contrasti, la possibilità di un documento in pdf leggibile da una sintesi vocale e non scansionato come immagine, un recapito cui rivolgersi che non sia solo telefonico. E’ necessario che uno studente possa accedere alla scuola con gli strumenti per lui più consoni ponendo fra questi lo screen reader o il software didattico così come può avere penna e quaderno. E’ utile che i luoghi della cultura e gli URP preparino brochure cartacee e digitali parimenti consultabili e siano pronti ad accogliere un utente che parli ad esempio la Lingua dei Segni; è utile che i quotidiani abbiano pagine web accessibili e dimensionabili nel testo; che tutto il web adotti l’accessibilità. E’ fondamentale che sul lavoro, e già prima nella selezione delle risorse umane, le persone con disabilità siano un’occasione per interrogarsi su come proseguire insieme e meglio. Rispetto a queste prospettive c’è una cultura acerba che tuttora è il vero fattore barriera per una diffusa consapevolezza della disabilità come driver di innovazione.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here