Agenda digitale: di ritardi e di miliardi

Quella appena trascorsa è stata la settimana degli articoli sul ritardo accumulato dall’Italia rispetto alla roadmap a suo tempo definita per l’attuazione dell’agenda digitale.

Tutto è cominciato dopo la pubblicazione di un report da parte della Commissione Trasporti della Camera, il 5 marzo: sedici slides (al netto da copertina e indice) finalizzate a illustrare puntualmente lo stato di attuazione dei vari provvedimenti emanati tra il 2012 (Decreti “Crescita” e “Crescita 2.0”) e il 2013 (Decreto “del Fare”).
Su un totale di 55 adempimenti previsti, soltanto 17 sono stati adottati e ben 21 sono già tecnicamente “scaduti”.

Apriti cielo.

Valanghe di commenti indignati nei confronti dell’AgID, accusata di “dormire” anche se nessuno pare ricordarsi dei diciotto mesi di impasse in assenza di uno Statuto che consentisse all’Agenzia di potersi muovere fuori dagli angusti limiti imposti dalla “gestione provvisoria” tipo Sede Vacante di quando muore il Papa.
Qualche osservatore più attento (mi piace citare Alfonso Fuggetta, che continua a rimanere una delle poche persone di buon senso in questo piccolo mondo di soliti noti) ha provato timidamente a far notare che probabilmente il problema stava a monte, ossia nella tempistica eccessivamente ottimistica imposta dal legislatore in sede di emanazione dei tre decreti “incriminati”.

futuroNessuno (salvo errori ed omissioni di lettura da parte di chi scrive) ha detto una sola parola in merito al quanto ci costa questo ritardo in termini economici complessivi.
Il regime di asfissia che caratterizza il mercato italiano dell’ICT (al netto del segmento “Consumer”) non può continuare più di tanto: inanellare un ulteriore anno negativo potrebbe risultare esiziale per un bel po’ di piccole e medie aziende del settore, ma anche per branch italiane di multinazionali sempre più disamorate del nostro Paese e della sua refrattarietà nei confronti dell’innovazione tecnologica.
Paradossalmente, anche la pubblica amministrazione paga (salato) il conto di questi ritardi: parliamo, nella migliore delle ipotesi, di qualche miliardo l’anno che gli enti potrebbero risparmiare digitalizzando i loro processi di produzione dei servizi. Qualche ottimista arriva addirittura a “vendere” scenari di risparmio da 60-70 miliardi l’anno, facendo finta di non sapere che la gran parte di questi soldi potenzialmente risparmiabili hanno a che fare con posti di lavoro intoccabili per definizione.

E’ comunque incontrovertibilmente vero che di soldi la PA ne potrebbe risparmiare parecchi, fossero anche soltanto 7-8 miliardi l’anno (più 5-6 risparmiabili dalla Sanità). Per non parlare dei miliardi risparmiabili dai cittadini e dalle imprese se davvero fossimo capaci di digitalizzare “end-to-end” i principali procedimenti amministrativi. Eliminando code, tempi morti, balzelli e spese per spostamenti. Generando valore, valore vero.

Posti di lavoro, risparmi, punti di PIL. Tutta roba interessante, musica per le orecchie di chi quotidianamente lotta per far quadrare i conti dello Stato e delle amministrazioni locali.

Eppure, il tema dell’agenda digitale continua a rimanere materia per pochi intimi amanti del genere.
E’ evidente che la lobby dei “nemici” dell’innovazione nella PA è molto più forte di quella messa in campo dall’industria ICT.
Si scontano anni di mancanza di credibilità, e forse anche qualche centinaio di milioni di Euro mal spesi in passato.
Persino gli stessi strenui “difensori del digitale” rischiano di fornire ulteriori argomenti ai detrattori: continuando a criticare Tizio e Caio (uno dei due è un nome di fantasia …) alimentando polemiche sterili da pseudo-condominio.

Qui non è più tempo di baruffe più o meno chiozzotte: dobbiamo cominciare sul serio a parlare di soldi, a mettere in campo un piano industriale come si deve.
Più che un’agenda, servirebbe un foglio elettronico.

 

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