Che l’altro non capisca tutto quello che gli scrivi va da sé. Che 95 destinatari su 100 non capiscano pressoché nulla e non trovino alcun interesse dipende da te. Una storia divertente può iniziare a farci capire qualcosa. Se ti sei mai sorpreso a tamburellare con le dita su un tavolo, questa lettura sarà per te un’esperienza reale:
Elizabeth Norton si laureò (1990) in psicologia a Stanford con un’interessante tesi. Scelse un gruppo di “tamburellatori” e un altro di “ascoltatori”. Ai primi consegnò una lista di 25 canzoni conosciutissime, tra cui “Happy Birth-day to You”, l’inno nazionale statunitense, ecc. Il compito dell’ascoltatore era d’indovinare, dai colpetti ritmici delle dita, la canzone che il “tamburellatore” stava interpretando. Il primo risultato è stato che su 120 canzoni gli ascoltatori ne indovinarono il 2,5%, cioè 3 canzoni. La seconda conclusione è quella veramente sconvolgente. Elizabeth aveva chiesto ai “tamburellatori” di fare una previsione riguardo la probabilità che gli “ascoltatori” indovinassero la canzone “tamburellata”: essi previdero che le probabilità erano del 50%. Loro credevano che potevano far passare il messaggio 1 volta su 2, di fatto riuscirono (riuscirono?) 1 volta su 40. (Made To Stick, 2007)
Dove sta la maledizione?
Il problema è che alcuni sono in possesso di una conoscenza (la canzone) che non gli permette di capire cosa provano gli altri che non la possiedono. Questa è la “maledizione della conoscenza” che una volta che la possediamo ci rende ciechi senza sapere che lo siamo e ci dimentichiamo di come eravamo prima di averla acquisita.
Tutto chiaro?
È una cosa pazzesca, vero? (“Ma Marco dai! Lo dicono tutti i corsi di comunicazione di questo mondo che il destinatario è importante!”). Verissimo, sono con te, ma ci sono cose che si sanno e non si fanno, ci sono cose che si studiano e non si sognano (vedi l’inglese): è quando inizi a sognarle che capisci di possederle.
Ma allora come si fa? La dinamica è quella dell’incontro con una persona che ha già provato e già sognato quello che tu credi di sapere e per la quale l’empatia, il tentativo di “entrare nell’altro”, è ormai habitus: è del tutto normale. Non conosco altro metodo.
La prima volta che lessi la storia di Elizabeth mi ci ritrovai in pieno: pieno di me e per nulla degli altri. Cosa potessero sapere gli altri di quello che sapevo io, in che situazione concreta potessero trovarsi mentre gli scrivevo (in ufficio, a casa, in bagno…), che cultura li impregnasse, che sentimento o risentimento potessero portare verso di me, cosa potesse interessargli… ecco: me ne ero (quasi) sempre e letteralmente fregato! (ma non preoccuparti: è abbastanza naturale pensare prima a se stessi)
Cosa c’entra con l’email?
Quando invii un’email ci sono 3 cosette, tre domande che se non te le fai tu stai sicuro se le fa l’altro. Spesso crediamo che i nostri interlocutori abbiano già tutte le risposte, che certamente capiranno ed è proprio per questo che cadiamo così spesso nella maledizione.
Se poi parliamo di email promozionali (o DEM) la cosa è ancor più delicata: le email promozionali non vendono mai un prodotto, vendono un click. Il loro successo dipende dall’esserci o meno di un click su quel stra-benedetto link (verso il tuo prodotto/servizio) che hai messo all’interno dell’email. Senza rispondere a quelle tre domande, in particolare alla terza, non avrai mai quel click. Sarai presto maledetto!
Cosa dunque si chiede il destinatario quando riceve la tua email?
- Chi sei?
- Cosa vuoi farmi fare?
- Perché dovrei fare quello che vuoi farmi fare?
Domande banali? Ricordatevi dei tamburellatori.
Si tratta di argomentazioni nell’interazione e adesso lo sai! Da oggi non puoi più permetterti di far uscire dal tuo programma un’email che non risponda a queste 3 domande.
La prossima volta sarà interessante approfondire insieme la seconda e, in particolare, le origini della terza domanda: il concetto di reason why. Avremo a che fare con qualcosa di molto antico e sempre presente. Ma sarei maledetto se pensassi di essermi già spiegato…
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