La democrazia degli altri

Dal punto di vista dei diritti umani e della democrazia “applicata” i Paesi asiatici hanno ancora molto da imparare da quelli occidentali. Compresa la più occidentale di tutte le città dell’est asiatico, Hong Kong, che vive da sempre uno strano – e conflittuale – connubio tra tradizioni anglosassoni e metodo di governo cinese.

La settimana scorsa gli abitanti della città hanno sperimentato gioie e dolori della democrazia partecipativa. Tutto ha inizio con un sondaggio informale tra i cittadini, promosso da alcune associazioni di volontari, che, tra le altre cose, insisteva per introdurre nuove misure pro-democrazia nel governo della città. Più esattamente: ai cittadini si chiedeva di esprimere una preferenza non su un candidato alla guida della città – che, è bene ricordare, è soggetta a un regime speciale di governo, il che ne fa una sorta di città-stato – ma sulla modalità per votare il candidato, optando tra le tre opzioni messe a disposizione. Lo scopo, dichiarato, era quello di accelerare i tempi affinché il governo cinese mantenga quella che, almeno ad oggi, è rimasta solo una promessa: garantire cioè elezioni democratiche del governatore, assecondando gli standard occidentali, entro il 2017.

Il lavoro dei volontari è stato capillare. Hanno raccolto adesioni per strada, nelle stazioni delle metropolitane, e nei centri commerciali. E alla fine lo sforzo è stato premiato. In 3 giorni oltre 689mila persone hanno espresso la propria preferenza. È un numero considerevole, pari a circa 1/5 dei votanti ufficialmente registrati in città. Ad aiutare la raccolta di firme c’è stato internet. Oltre la metà di coloro che si sono espressi ha votato attraverso il sito web dedicato alla consultazione, in molti casi connettendosi dal proprio smartphone o tablet.

Purtroppo però il governo di Pechino si è messo contro. Dapprima ha condannato duramente la consultazione, giudicandola irrilevante – e in effetti il voto dei cittadini non avrebbe avuto alcun esito ufficiale. E poi etichettandola come “illegale”. Il governatore in carica, Leung Chun-ying, ha dichiarato ufficialmente la sua contrarietà alle proposte contenute nel sondaggio, appunto perché contrarie alla legislazione della città. Ne è seguita una polemica alimentata dalla stampa allineata al regime, che ha accusato la consultazione di irregolarità e brogli, definendola “una farsa”.

L’impressione è che, alla fine, non se ne farà nulla. Troppo forte la pressione del governo di Pechino, troppo potente la campagna mediatica contro l’iniziativa e, soprattutto, troppo poco coinvolta la popolazione, nonostante lo sforzo degli attivisti. Rimarrà l’esempio però. Esempio di come un network di attivisti possa contribuire a muovere l’opinione pubblica e scomodare il governo, evidentemente preoccupato di perdere il controllo della situazione. Ed è un esempio anche per noi occidentali, così abituati alle pratiche di democrazia partecipativa da considerarle, spesso, prive di spessore. In altre parti del mondo, quel mondo che consideriamo “occidentalizzato” o, comunque, vicino ai nostri usi, anche una consultazione online è una guerra che si combatte porta a porta.

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