In un commento pubblicato su Techeconomy, Stefano Epifani giustamente lamenta il fatto che il digitale, invece di essere visto come strumento di innovazione profonda e sistemica, è troppe volto considerato solo un mezzo per efficientare il funzionamento della società, ridurre costi, risparmiare.
Per introdurre questa osservazione (che certamente condivido), Stefano ricorda un pensiero del filosofo Bernardo di Chartres, “Nani sulle spalle dei giganti”. Devo confessare che leggendo questa citazione pensavo che Stefano volesse affrontare un tema più ampio. Ripeto, condivido la sua osservazione specifica, ma andrei oltre e sfrutterei la sua citazione per proporre qualche pensiero a più ampio spettro.
L’Italia è un paese che vive problemi profondi e strutturali. Non sono semplicemente il risultato di una congiuntura sfavorevole. Sono l’esito di una lunga serie di errori, carenze e limiti che ci affliggono da decenni e dai quali non riusciamo a liberarci. Viviamo in una società piena di piccoli e grandi interessi, divisa, con profonde disomogeneità economiche e sociali. E abbiamo una politica debole che non riesce a guidare con forza e autorevolezza il paese, e che troppo spesso vive in modo isolato e autoreferenziale questo difficile passaggio storico.
In un momento così delicato, il paese avrebbe bisogno di affondare la sua azione in valori profondi, veri, vissuti. Avrebbe bisogno di riscoprire ideali, prospettive, percorsi lungimiranti sui quali convergere e lavorare. Avrebbe bisogno di responsabilità, onestà intellettuale, sincerità e generosità. E invece abbiamo un paese che a tutti i livelli – ma soprattutto là dove maggiore dovrebbe essere il senso di responsabilità – vive solo di tattica, di personalismi, di piccolo cabotaggio, di quella povera amicalità del branco che sa solo chiudersi e difendersi dai “nemici esterni”, di una continua ricerca del vantaggio immediato invece di una reale e lungimirante prospettiva comune di sviluppo economico, sociale e culturale.
Perché mi viene da essere così negativo e critico? Ripenso a tanti episodi, atteggiamenti, modi di vivere che quotidianamente abbiamo modo di osservare e sperimentare.
- Un mio collega soleva ripetermi che nella vita e nel lavoro non bisogna scegliere le persone più brave. “Quelle brave prima o poi ti fanno le scarpe. Devi scegliere quelli scarsi che puoi controllare”. Altro che talento e merito! Altro che “privilegia l’intelligenza”, come un altro amico, in modo assolutamente minoritario, ardiva sostenere!
- Abbiamo paura di avere torto e di non avere consenso. Abbiamo paura di sentirci soli nel sostenere le nostre idee. E quando anche lo facciamo, spesso è solo nell’ambito di una mirata strategia di comunicazione, volta a distinguerci, a farci apparire e risaltare. Ogni idea vive fintanto che è funzionale alla comunicazione, all’acquisizione del consenso, “all’avere ragione”.
- Abbiamo paura delle idee forti e ci piacciono invece le idee popolari o trendy. Come si può ricercare e costruire in questo modo qualcosa di veramente duraturo e fondante?
- Siamo sommersi dall’ipocrisia di chi proclama di volersi occupare del bene comune e invece alla resa dei conti si preoccupa solo del suo vantaggio personale. Pensiamo che il fine sia fare carriera e non che si fa carriera perché si è prodotto qualcosa di utile e serio. Abbiamo svilito il senso della parola “merito”, ormai violentata e asservita ai singoli interessi di parte e svuotata di ogni valenza profonda e sostanziale. Usiamo le posizioni di responsabilità che abbiamo non per fare bene il compito che ci viene assegnato, ma per costruirci il salto al “livello superiore”, costi quel che costi.
- Preferiamo la fedeltà alla lealtà, la “coesione del branco” alla ricchezza e complessità di un ecosistema di pensiero ricco e diversificato. Confondiamo autorevolezza con autorità e decisionismo con unanimismo servile. Non sappiamo più dialogare, ma solo fare propaganda e, al tempo stesso, non sappiamo più coinvolgere e condividere, ma solo vendere, mistificare o prevaricare.
- Non abbiamo il senso della misura e dei nostri limiti. Non sappiamo legare le legittime ambizioni personali al senso del ragionevole e del possibile. Pensiamo che qualunque obiettivo sia legittimo e dovuto, e non siamo capaci di vedere il confine tra una ragionevole ambizione, un insopportabile arrivismo e la più cieca delle illusioni.
- Siamo diventati tanti piccoli Savonarola che si indignano ogni momento per le pagliuzze nell’occhio del prossimo e non vedono le travi nel proprio, che si scandalizzano per i peccati veniali e neanche si accorgono di quelli mortali, che non sanno distinguere tra peccato e peccatore, tra giustizia e vendetta, tra verità e mistificazione, tra credibilità e millantato credito.
È in questa luce che rileggo la citazione proposta da Stefano. Dovremmo ricominciare a camminare e guardare avanti appoggiandoci con coraggio e umiltà sulle “spalle dei giganti” che sono i pensieri dei grandi protagonisti della nostra storia, i principi profondi del vivere civile, i valori fondanti della civiltà italiana e occidentale. Dovremmo veramente costruire il lessico della nostra vita quotidiana attorno a vocaboli “giganti” come “valore”, “merito”, “responsabilità”, “contenuto”, “senso del dovere”, “onestà intellettuale”, “competenza”, “bene comune”. E invece usiamo queste parole in modo vuoto e strumentale, trasformandole in bieca retorica, “difesa del territorio”, strumenti per le piccole appropriazioni quotidiane di fette di potere o benessere o visibilità.
È questo il nostro guaio. Siamo pieni di immagine e apparenza ed abbiamo perso la capacità del confronto, della critica, della responsabilità consapevole. Siamo pieni di noi, di ambizione, di aspirazioni personali e poveri della voglia di servire e offrire. Facciamo passare per ideali solo i piccoli interessi di bottega o i valori e temi di cui ci sentiamo portatori.
Siamo tanti nani e ballerine che danzano soli e sperduti alla ricerca del piccolo vantaggio quotidiano.
Abbiamo scordato le personalità veramente “giganti” che hanno servito il Paese e la società, e abbiamo scordato i “giganti” intesi come principi e ideali che devono guidare la vita delle persone serie. Siamo tante piccole comparse che vogliono fare i primi attori senza aver studiato e senza avere il carisma per poterlo fare e, soprattutto senza avere il coraggio, la preparazione e la convinzione per poterlo fare.
Abbiamo bisogno di tanta umiltà e di tanto silenzio per ricominciare a dare il giusto peso e dimensione ai “fatti e valori seri della vita”, al nostro voler essere protagonisti credibili e non solo dei piccoli opportunisti che si agitano in questo scorcio di storia. Dobbiamo aver il coraggio di sentirci nani bisognosi di giganti che ci aiutino, con umiltà e coraggio, a scalare la montagna che abbiamo di fronte.
Chissà se ne saremo capaci.
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