Alfabeto Open: B come Business

“Chi vuol verdura fresca vada all’orto, chi vuole il pesce caro vada al porto” (proverbio)

Lo ammetto: sono di parte.
Le proprie esperienze influenzano ragionamenti e scelte, è una conseguenza normale – direi – anche cercando di mantenere un approccio aperto alle cose.
Sta di fatto che se penso al modello di business tipico del software proprietario, mi arriva al naso un sentore: odore di naftalina.
Già… Quella che si appiccica ai vestiti negli scatoloni. Ma non gli scatoloni recenti dell’ultimo cambio stagione, quelli “archiviati”. E’ un odore che ricorda la camera dei miei nonni, o le soffitte di qualcuno che tipicamente non ha mai cambiato residenza.

verduraOk – direte – perciò esiste uno specifico modello di business adeguato al software libero? Ovviamente sì. Ed è un’opportunità di business potenzialmente a profitto più alto rispetto all’altro.

Passatemi il paragone: non è il margine del fruttivendolo che acquista e rivende zucchine (nel nostro caso una licenza software comprata a 100 e rivenduta a 110), ma quello del fruttivendolo che coltiva ciò che vende.

Ho contato 8 modelli di business, che però scremerei in questo breve elenco senza sconfinare in un’eccessiva  disamina. L’ordine è inverso alla mia preferenza:

  • Dual licensing/Open core
  • Hosting
  • Subscription/Consulting

Con la Dual Licensing / Open core strategy viene resa disponibile sia una versione del software con licenza libera/copyleft (tipicamente chiamata “Community”), sia una versione con licenza proprietaria (tipicamente chiamata “Enterprise” o “Professional”).

Questo modello si è dimostrato in grado di aggregare significative comunità di utenti attorno al “core” libero (il nucleo centrale del programma), facendo assomigliare il processo di sviluppo a quello di un normale progetto open. In realtà, il modello è guidato sempre da un’azienda che ne detiene uno stretto controllo e che basa il profitto sulle parti di software o le funzionalità aggiuntive a pagamento (licenza EULA classica).

E’ evidente che il modello celi in sé una domanda subdola, che oltretutto è da reiterare all’infinito: “quanto posso ancora limitare il core libero per far aumentare la vendita del software proprietario e contemporaneamente come posso migliorare – ma non troppo – il core libero per farne aumentare la diffusione e l’adozione?”

L’equilibrio è difficile, in effetti, tanto che questo modello, a torto o a ragione, viene percepito sempre più come un modello di business proprietario “mascherato” (o di 2a generazione).

All’azienda servirà comunque un mantra: “mai vendere alla community”. In questo caso la community stessa, con buona probabilità, decreterebbe la chiusura del progetto “core”.

Con l’hosting strategy il modello di business si basa sulla vendita di servizi SaaS (software as a service) basati su soluzioni libere. Un tipico esempio è rappresentato da Google e da Yahoo.

Il concetto è semplice: il software si fruisce on-line, senza scaricarlo ed installarlo localmente, quindi il business sta nell’offrire il servizio completo, tipicamente consentendo di scegliere il profilo adeguato alle proprie necessità (esempio: funzionalità diverse da “utente free”a “utente pro”, diversi spazi di archiviazione, etc.)

La Subscription/Consulting strategy è un modello che mi piace di più: il software è distribuito con licenza libera, è quindi liberamente scaricabile, utilizzabile, modificabile, etc., ma gli utenti finali possono ricevere aggiornamenti ed assistenza/supporto mediante l’iscrizione a un servizio in abbonamento. Tipicamente il modello combina anche la vendita di servizi a valore aggiunto, come: la consulenza, il packaging/building, la formazione, la manualistica, l’installazione e la messa a punto del software, l’integrazione, le personalizzazioni per usi o scopi particolari, la migrazione da altri ambienti, etc.

Quale che sia il modello che preferiate in questa breve disquisizione, occorre a mio avviso dover ripensare innanzitutto il concetto stesso di software, inteso non più come “prodotto” da vendere (o da acquistare, a seconda della prospettiva), ma di “servizio” ad esso correlato, o meglio ancora di “soluzione”.

Con questa consapevolezza, vi inviterei a valutare meglio la figura dei System integrators: “Il compito del system integrator è quello di far dialogare impianti diversi tra di loro allo scopo di creare una nuova struttura funzionale che possa utilizzare sinergicamente le potenzialità degli impianti d’origine e creando quindi funzionalità originariamente non presenti.” (fonte Wikipedia)

Oggi il focus si sposta nettamente sulle competenze altamente qualificate: i system integrators, infatti, non vendono licenze ma conoscenza e competenza (non solo tecniche, ma di “dominio applicativo”), riuscendo così a trovare nuove opportunità di business.

Questo ulteriore modello lo possiamo chiamare “Project Centric”, il cui fine remunerativo è la realizzazione del progetto del committente attraverso una o più soluzioni libere ed integrate in modo tale che le caratteristiche complessive risultino preferibili rispetto ad una soluzione proprietaria (tipicamente grazie alla disponibilità del codice sorgente ed all’apertura, modularità, integrabilità, adattabilità, riusabilità e scalabilità della soluzione … e scusate se è poco).

Riprendendo l’esempio iniziale del fruttivendolo, c’è quindi anche un “chilometro zero”, perché se queste necessarie competenze risultassero reperibili sul territorio (e non necessariamente oltreoceano), potremmo usufruirne positivamente favorendo un circolo virtuoso indotto di imprenditoria locale.

In sintesi: un’opportunità per te, che lavori, e per i tuoi figli o nipoti che ancora stano studiando.

Quindi… sono di parte come ho premesso, ma questa evoluzione non mi odora di naftalina come nel modello proprietario, quanto piuttosto di bio-orto fresco e salutare.

…E a voi?

TechEconomy_B

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here