#DIGEat2015: competenze digitali, lavoro e professionisti ICT, in Italia c’è ancora molto da fare

L’innovazione law driven avviene quando vi è una norma a imporne l’adozione ed è quella che caratterizza il nostri sistema Paese. Ne abbiamo testimonianza diretta in molti ambiti professionali, spinti a innovarsi per effetto di leggi specifiche: “E’ accaduto con il mondo dell’avvocatura con l’avviamento del Processo Civile Telematico –  spiega Claudio Rorato Ricercatore e Senior Advisor presso la School of Management del Politecnico di Milano che interverrà al DIG.eat di Anorc in programma per il 14 ottobre a Roma “ma anche nella PA con la fatturazione elettronica e la conservazione a noma dei documenti digitali. Ma questi, sono solo alcuni esempi che, però, dimostrano che l’adozione spontanea di innovazione in Italia, salvo rare eccezioni che pure esistono, stenta ad affermarsi.”

Perché? Al di là del fattore culturale legato alla resistenza al cambiamento di moltissimi comparti, compresi quelli professionali, Rorato individua almeno due forti criticità che inquadrano un fenomeno complesso. ”Prima di tutto la scuola, che non sostiene a dovere la creazione di una cultura digitale. In Italia c’è un pc ogni 12 studenti mentre in UE la media è di quattro!”. E nel mondo del lavoro, comprensivo di quello delle Professioni, non va meglio”.

Se, per esempio, prendiamo alcune delle professioni più vicine al mondo delle imprese – commercialisti, avvocati, consulenti del lavoro, quindi professioni regolamentate, “sono investiti da un’innovazione digitale che corre più velocemente della loro capacità di adeguarsi.” E questa situazione crea criticità non solo sulla categoria professionale in sé ma va vista in termini di impatto sulle imprese clienti. Questi professionisti, che lavorano tradizionalmente con le aziende e per le aziende, dovrebbero essere portatori di una nuova cultura d’impresa, nella quale il digitale diventa un fattore di grande rilevanza competitiva. “Ciò non avviene o, per lo meno, non avviene con la dovuta intensità e frequenza, perché, mediamente, anche gli stessi professionisti non sono così pronti a comprendere la capacità di creare valore da parte delle tecnologie informatiche nei processi organizzativi e di business. Bisogna però dire che qualche segnale di cambiamento esiste, come dimostrano i dati del nostro Osservatorio Professionisti e Innovazione digitale. Le avanguardie digitali hanno creato un seguito che, seppur limitato, sta via via ampliandosi”.”

Per i professionisti dell’ICT la situazione è ancora diversa ma ugualmente preoccupante: “si è ancora molto concentrati sul prodotto, non è stato ancora fatto quel passaggio culturale che sposta il focus sul processo lavorativo. Il prodotto dev’essere l’anello terminale, la soluzione finale che si innesta su un processo che dev’essere prima compreso nelle sue criticità.” Eppure “fare innovazione con le tecnologie vuol dire proprio questo: percepire correttamente come si articola un flusso di lavoro, capire dove esiste un problema e come intervenire per risolverlo. Magari con prodotti o comportamenti differenti, come, per esempio, alleanze o partnership di varia natura.” Se manca questo, e in Italia il panorama è tutt’altro che avanzato, manca la possibilità di gestire, pianificare e adottare innovazione digitale come vero volano per nuove professioni e per il lavoro. Ecco perché, auspica Rorato, “vanno percorse tutte le strade per portare un Paese che fatica a farlo autonomamente. Pensiamo davvero a un uso più intenso della normativa ma anche a situazioni che scoraggino l’analogico e incoraggino il digitale. Far pagare di più il primo, per finanziare e incentivare il secondo.””

Se questo è il panorama delle professioni, situazione che verrà approfondita nel corso dell’evento DIG.Eat, le imprese a che punto stanno in Italia? “Nell’Osservatorio del Politecnico di Milano, Digital innovation Academy leggiamo che il rapporto tra budget ICT e fatturato nelle grandi imprese è sceso al 2,1%, al di sotto del 2,5% del 2013. E’ già un dato di per sè preoccupante, che peggiora se confrontato con la media estera: mentre i responsabili IT delle nostre big prevedono un ulteriore calo dell’1,47% Gartner prevede una crescita a livello internazionale del 3,5%”.

Cosa vuol dire tutto questo? Essenzialmente una cosa chiarisce Rorato: “ci dà la misura di quanto nelle grandi imprese l’ICT venga percepito non come volano per lo sviluppo ma come una componente di costo da tagliare in tempi di crisi.” Un problema che si somma al fatto che i vertici stessi non comprendono che, attraverso le tecnologie, “essi potrebbero ottenere risultai interessanti da un punto di vista dell’incidenza sulle performance aziendali: un incremento delle componenti di ricavo o una riduzione delle componenti di costo.”

Non va bene neppure nelle PMI: in questo caso non viene percepita la possibilità delle tecnologie di fare innovazione e l’imprenditoria media resta concentrata sui prodotti e non sugli aspetti gestionali. In sintesi: la potenza della macchina ICT non viene utilizzata a dovere, perdendo un grosso contributo al rilancio dell’economia.

Di questi e molti altri temi si parlerà nel corso dell’evento DIG.Eat promosso da Anorc: qui il programma della manifestazione.

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