L’insostenibile distanza tra sogno e realtà

Qualche giorno fa ho partecipato ad un incontro di lavoro con un gruppo di manager (molto bravi e competenti) di alcune delle più belle aziende italiane. Abbiamo discusso del programma di un evento che stiamo organizzando per l’anno prossimo. Ovviamente, parlando di innovazione, sono emersi i temi e le parole chiave di cui tutti tanto parliamo: IoT, big data, startup, digital transformation, singolarità tecnologica e altre. Sentendo le discussioni che stavamo facendo, non ho potuto in cuor mio non fare un confronto tra quello che ci diciamo e quello che viviamo, tra intenzioni e realizzazioni, tra sogno e realtà.

Siamo quotidianamente sommersi da convegni, articoli, interventi, proposte di legge, piani strategici, … (inclusi, nel mio piccolo, anche i miei!) che ci raccontano gli sconfinati spazi del possibile, le straordinarie opportunità offerte dalle tecnologie digitali, le meraviglie che — solo a volerlo e dichiararlo— possono cambiare il destino delle nostre imprese e della nostra società nel suo complesso. Ci diciamo poi che grazie alle startup siamo in grado di dare una svolta al nostro tessuto industriale, rinnovandolo e rilanciandolo nel panoramo della competizione mondiale.

Ma è questo ciò che viviamo tutti i giorni in giro per il paese?

No.

Tutti i giorni viviamo la realtà di tante, troppe, aziende e amministrazioni pubbliche lente, indecise, poco inclini ad investire in innovazione, incapaci di gestire questi processi con la dovuta velocità e chiarezza di idee. Vediamo errori che si ripetono perché non conosciamo la storia e quanto si è fatto in precedenza. Vediamo banalizzazioni e semplificazioni del processo di innovazione che se anche avessero l’intento positivo di motivare e spingere un paese recalcitrante, non fanno altro che creare illusioni o percezioni errate di cosa voglia dire innovare.

Un esempio mi ha colpito in questi giorni: “L’hacker che ha costruito, da solo, un’automobile senza pilota (battendo Google e Tesla)”.

Sì, perché in fondo è un autodidatta, uno che questo sistema se lo è progettato e realizzato da solo, senza l’aiuto di un team di ingegneri e professionisti del settore. E quel “groviglio” di tecnologie ne sono l’esempio più lampante.

Eccoci qua! E che ci vuole? Basta un hacker in un garage ed è possibile battere Google e Tesla “senza l’aiuto di un team di ingegneri e professionisti del settore”. Ma perché non ci abbiamo pensato prima! Stupidi che siamo!

Poi uno legge la risposta di Tesla e capisce l’abisso di ignoranza che circonda tante “narrazioni”:

The article by Ashlee Vance [mia nota: il giornalista che per primo aveva raccontato la vicenda poi ripresa nell’articolo italiano] did not correctly represent Tesla or MobilEye. We think it is extremely unlikely that a single person or even a small company that lacks extensive engineering validation capability will be able to produce an autonomous driving system that can be deployed to production vehicles. It may work as a limited demo on a known stretch of road — Tesla had such a system two years ago — but then requires enormous resources to debug over millions of miles of widely differing roads.
This is the true problem of autonomy: getting a machine learning system to be 99% correct is relatively easy, but getting it to be 99.9999% correct, which is where it ultimately needs to be, is vastly more difficult. One can see this with the annual machine vision competitions, where the computer will properly identify something as a dog more than 99% of the time, but might occasionally call it a potted plant. Making such mistakes at 70 mph would be highly problematic.

Questo paese vive da anni un perverso intreccio di crisi industriali, ignoranza, superficialità e rincorsa del luogo comune. Siamo in ritardo su tanti fronti e, al tempo stesso, ci crogioliamo nel dibattito sulle innovazioni possibili o nelle narrazioni degli innovatori “fai da te”. Ci stiamo illudendo che si possa rimettere in marcia un paese lento, conservatore e parecchio ignorante, semplicemente con la buona volontà e l’entusiasmo della narrazione o con i dibattiti colti sui tanti risvolti del “sogno”.
Serve altro. Sì, sono “benaltrista”. Voglio fortississimamente essere “benaltrista”.

Serve una consapevole presa di visione dello stato in cui ci troviamo. Serve intraprendere un coraggioso e lungimirante cammino che sarà necessariamente lungo e faticoso. Serve studiare la storia e il passato per capire errori e risultati dai quali ripartire. Serve muoversi con concretezza e competenza, con decisione e coraggio, senza crogiolarsi in illusioni, fantasticherie o consolatorie semplificazioni.

In altre parole, serve tanta serietà.

In questa giornata invernale, ripensando a questi temi, mi sono tornate in mente le parole dure e cariche di verità di Giacomo Leopardi, che ne La ginestra scrive:

Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra sé. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto;
bench’io sappia che obblio
preme chi troppo all’etá propria increbbe.

Sì, lo so che “la cancellazione dalla memoria schiaccia chi troppo biasima il proprio tempo” (trascrizione dell’ultimo verso).

Ma quel che va detto, va detto.

P.S.: Qui e qui potete trovare il testo completo de La ginestra e alcune chiavi di lettura.

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