Contro il coding

coding bambini

Tutti impazziti per il “coding”, perché è quella cosa quando fai sul serio col computer e ti garantisce un lavoro per il futuro.

Partiamo dai fondamentali: “quella cosa quando fai sul serio col computer” un nome ce l’ha già: si chiama capire il mondo. Il codice esprime in un programma la misura della tua comprensione del mondo; quindi un programma che funziona è l’espressione del fatto che qualcuno ha compreso un pezzo di mondo.

Chi separa il codice dalla programmazione, e quindi dalla comprensione del mondo, lo fa per due motivi: ignoranza o malizia. La prima non è una colpa, ed è il motivo più diffuso; la seconda è una colpa, e grave.

Primo caso: il coding degli ignoranti

Chi parla di “coding” per ignoranza o per moda si basa su una conoscenza dell’informatica da telefilm: l’inevitabilmente giovane hacker bianco che pigiando tasti a raffica sventa la III guerra mondiale oppure penetra nella banca/CIA/NSA/centrale nucleare. Se è proprio un hacker moderno, riprogramma orbite di satelliti da uno smartphone mentre cammina.

Purtroppo questo è il livello di competenza digitale della nostra classe dirigente e della maggioranza dei docenti.

L’informatica non è il codice, ma la comprensione del problema che ne rende possibile la scrittura. Il codice, poi, ha difficoltà proprie (e per nulla banali), ma non esiste qualcosa come “scrivo un po’ di codice e risolvo un problema”. Prima di arrivare al codice un problema va compreso, analizzato, formalizzato, spesso con tecniche che richiedono anni di studio; dopodiché occorre cercare come quel problema è già stato risolto da altri, e se parte della loro soluzione va bene anche per noi, perché non esistono problemi nuovi e perché nel software copiare è cosa buona. Naturalmente occorre anche considerare tutti i vincoli ulteriori imposti alla nostra soluzione dal contesto in cui operiamo: tempi, costi, risorse, tecnologie disponibili, potenziali conflitti con altri programmi in uso. Poi la soluzione che vogliamo relizzare dovrà essere espressa in termini assolutamente precisi, perché è da una macchina che cerchiamo di farci capire. E la macchina ha sempre ragione perché esegue i nostri ordini, non le nostre intenzioni.

A questo punto potremo finalmente iniziare a occuparci solo del codice, e della miriade di problemi che la sua scrittura comporta. A meno, naturalmente, che qualcuno sopra di noi nella gerarchia non abbia sentito la magica parolina “agile” e si senta in diritto di cambiare idea una volta a settimana, buttando alle ortiche metà del nostro lavoro.

Concentrarsi sul “codice” come se fosse un obiettivo e non un mezzo, come se fosse il punto di partenza e non quello di arrivo, è il modo peggiore di avvicinare i ragazzi all’informatica. Dà loro l’idea che le cose siano semplici quando non banali, addirittura (altro termine che odio) divertenti. Che non sia necessario concentrarsi, né informarsi, né imparare niente al di fuori di quello che le dita devono scrivere, quando chiunque abbia una minima esperienza di software sa che dietro un minuto di digitazione c’è un’ora di studio.

Questo faciloneria tecnologica è un insulto alla loro intelligenza, alla loro capacità di apprendere, all’apporto che possono dare in termini di creatività, e di invenzione, perché se i problemi sono sempre gli stessi le soluzioni vivaddio evolvono.

Suggerire che si possa scrivere codice senza sapere né curarsi di altro significa affidarsi alla tecnologia senza avere compreso che la tecnologia è meno importante del modo in cui viene applicata. Significa non voler capire che non ha senso produrre finte soluzioni che però “suonano” bene (ah, lo storytelling!) perché tanto “poi ai dettagli ci pensa chi è più tecnico”.

Non esiste più un “livello tecnico” che possa venire tralasciato o affidato ciecamente a qualcun altro, viviamo in una società troppo complessa.

Occorre dirci un’altra cosa: il pigiatasti che non vede al di là del computer è l’immagine speculare del dirigente ignorante che parla per frasi fatte e si cura esclusivamente del proprio personale potere scaricando le responsabilità sulle spalle degli altri. Entrambi i personaggi hanno fatto abbastanza danni, e di sicuro hanno fatto il loro tempo.

La programmazione (non la sola sottoattività di coding) è il quarto pilastro dell’istruzione dopo la lettura, la scrittura e la matematica.

Secondo caso: il coding dei bastardi

Dicevamo che l’ignoranza non è una colpa, ma la malizia sì. L’insistenza a parlare di “coding” come se la cultura del digitale si riducesse alla manualità dello scrivere codice a quello è anche propria di chi vuole produrre pigiatasti a cottimo, lavoratori a bassa specializzazione e basso costo, intercambiabili. Un proletariato del XXI secolo così impegnato a lavorare per vivere da non potersi accorgere che il proprio lavoro è tenuto artificialmente in vita solo come pacificatore sociale.

Il che ci porta al lavoro del futuro: siamo di fronte a un cambiamento a cui non siamo pronti: la fine del lavoro o, meglio, la fine della cultura del lavoro come obbligo per la sopravvivenza. Riconoscerlo significherebbe mettere in discussione i sacri assiomi del nostro modello economico, e questo non si può fare.

Ogni rivoluzione tecnologica ha modificato profondamente il carattere del lavoro, ma fino ad oggi per ogni compito superato se ne creava uno nuovo a quasi parità di competenze. Quindi se l’altro ieri lavoravi nei campi, ieri potevi lavorare in fabbrica senza particolari necessità di riconvertirti. Scrivevi lettere commerciali, tenevi la partita doppia a mano e poi imparicchiavi a fare lo stesso con Word e Excel o un gestionale. Poca roba, nessuno era veramente escluso.

Ma ora il cambiamento è tangibile. I robot possono fare la maggior parte dei lavori manuali o a bassa specializzazione, in modo economicamente vantaggioso, oggi. Per quanto riguarda i lavori intellettuali la sommarizzazione e la produzione di notizie, la consulenza legale, buona parte della diagnosi clinica in medicina, l’investimento in Borsa sono già da tempo terra di conquista per il software. E quindi anche molti lavori come giornalista, avvocato medico generico e trader sono morti che camminano già adesso. E il futuro arriva ogni mattina fresco come una rosa.

Per contro, le competenze del digitale richiedono anni di formazione e apprendistato, un aggiornamento continuo e non sono per tutti. Non certamente per chi aveva un lavoro prevalentemente manuale a bassa specializzazione o per chi vivacchiava usando il computer come macchina per scrivere. Non certamente per chi crede che la formazione sia quella cosa che a sedici anni puoi dire di averne abbastanza.

Non basta: anche i lavori del digitale stanno diminuendo vertiginosamente, perché nessun settore è immune dall’automazione. L’intera infrastruttura IT di Google per il Nord America richiede poco più di una ventina di tecnici. Foxconn rimpiazza operai cinesi (famosi per il costo della manodopera) con un milione di robot che costeranno ancora meno e lavoreranno ogni secondo della loro (lunghissima) vita meccanica. Amazon, il grande magazzino del mondo, assume in un colpo solo diecimila magazzinieri. Ma sono tutti robot.

La cosa problematica non è tanto che il lavoro sta sparendo, ma che l’economia preme per eliminare anche tutti quei lavori che sono sopravvissuti per ignoranza, inerzia, lassismo, perché tutto sommato era politicamente e aziendalmente più facile mantenere le persone nell’illusione che ricevere uno stipendio per qualcosa che una macchina poteva fare meglio potesse costituire un ragionevole progetto di vita. Non c’è nessun futuro come barista, cassiere, cameriere, tassista, camionista. E sto parlando della situazione oggi. Vedrete fra due anni.

Oggi, i robot fanno il magazziniere, il meccanico, l’assemblatore di circuiti. L’intelligenza artificiale pilota aerei e treni, cura la logistica, decide le politiche dei prezzi, gestisce fondi speculativi e il servizio clienti online del tuo venditore online di fiducia. E in tutto questo c’è chi viene a parlare di “coding” come se spataccare codice a casaccio fosse la Via per chissà quali magnifici destini.

Abbiamo voluto la tecnologia perché ci liberasse prima dalla fame e poi dalla fatica. Oggi sta per liberarci dall’idea del lavoro come bisogno universale per la sopravvivenza. Dobbiamo decidere cosa fare del nostro tempo, perché ne avremo sempre di più, mentre di lavoro ce ne sarà sempre meno, e per sempre meno persone. Ma la nostra cultura si basa ancora sul bisogno del bisogno. È tempo di ripensarla.

L’economia di mercato come l’abbiamo conosciuta finora ci ha portato fino qui, ma non può portarci oltre.

(foto Rainer Stropek, CC-BY 2.0)

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