“Innovare significa destabilizzare”. Perché la (iper) complessità non è un’opzione

“La consapevolezza non inizia con la cognizione o con la raccolta di dati o fatti, ma con i dilemmi”
Karl Popper

“Tutto ci incita a mettere fine alla visione di una natura non umana e di un uomo non naturale”
Serge Moscovici

Rispetto alle leggi scientifiche, la realtà si è dimostrata più ricca e stravagante di quanto potessero prevedere coloro che avevano fatto di queste leggi il mezzo determinante della esplorazione del mondo”
Ilya Prigogine

“Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Siate il peso che inclina il piano. Siate sempre in disaccordo perché il dissenso è un’arma. Siate sempre informati e non chiudetevi alla conoscenza perché anche il sapere è un’arma. Forse non cambierete il mondo, ma avrete contribuito a inclinare il piano nella vostra direzione e avrete reso la vostra vita degna di essere raccontata. Un uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai”
Bertrand Russell

Una premessa: perché è così importante educare alla complessità e al pensiero critico

Una questione complessa, quella della complessità! E, nell’affrontarla, non possiamo fare a meno di considerare, ancora una volta, un elemento essenziale: attualmente, l’evoluzione culturale è in grado – come mai avvenuto in passato – di condizionare quella biologica, determinando una trasformazione antropologica che rende ancor più evidente l’urgenza di quel famoso cambio di paradigma di cui tanto avremmo bisogno. Perché la (iper)complessità non è un’opzione, è un “dato di fatto”: il vero problema è che non siamo educati e formati a riconoscerla e, in ogni caso, non con la nostra testa. Come ho avuto modo di scrivere anche recentemente «la tecnologia è entrata a far parte della sintesi di nuovi valori e di nuovi criteri di giudizio[1], rendendo ancor più evidente la centralità e la funzione strategica di un’evoluzione che è culturale e che va ad affiancare quella biologica, condizionandola profondamente e determinando dinamiche e processi di retroazione (si pensi ai progressi tecnologici legati a intelligenza artificiale, robotica, informatica, nanotecnologie, genomica etc.). In altre parole, nel quadro complessivo di un necessario ripensamento/ridefinizione/superamento della dicotomia natura/cultura, non possiamo non prendere atto di come i ben noti meccanismi darwiniani di selezione e mutazione si contaminino sempre di più con quelli sociali e culturali che caratterizzano la statica e la dinamica dei sistemi sociali. Sempre più difficile, oltre che fuorviante, provare a tenere separati i due percorsi evolutivi e, allo stesso tempo, sempre più urgente si fa la domanda di un approccio multidisciplinare alla complessità per l’analisi e lo studio di dinamiche (appunto) sempre più complesse, all’interno delle quali i piani di discorso e le variabili intervenienti si condizionano reciprocamente, mettendo a dura prova i tradizionali modelli teorico-interpretativi lineari».

I “vecchi” confini tra formazione scientifica e formazione umanistica sono di fatto completamente saltati, in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e delle continue accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica che rendono ancor più ineludibile l’urgenza di un’educazione/formazione alla complessità e al pensiero critico (logica). Tuttavia, le resistenze ad un cambiamento così radicale di prospettiva (modelli, pratiche e strumenti) sono fortissime, arrivano soprattutto dai “luoghi” ove si produce e si elabora conoscenza e sono legate a motivazioni di diversa natura: logiche dominanti, modello sociale feudale, questione culturale, primato della politica in tutte le dimensioni, familismo amorale, culture organizzative, climi d’opinione etc. Fondamentalmente, soprattutto perché, come affermato in tempi non sospetti, in qualsiasi campo della prassi individuale e collettiva, innovare significa mettere in discussione saperi e pratiche consolidate, immaginari individuali e collettivi, rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione (cit.), abbandonare il certo per l’incerto con rischi (opportunità), anche percepiti, notevolmente superiori. In altre parole, rendere, almeno temporaneamente, più vulnerabili i sistemi e lo spazio comunicativo e relazionale che li caratterizza. Una questione strategica e decisiva per il complesso processo di costruzione, sociale e culturale, della Persona e del cittadino e, quindi, dello spazio pubblico, che riveste un ruolo di fondamentale importanza anche in considerazione del costante e rapido mutamento del contesto, locale e globale, di riferimento (Società Ipercomplessa). Infatti, il processo evolutivo degli ecosistemi sociali (1996) sta progredendo verso una ridefinizione degli spazi relazionali e delle asimmetrie, che porta con sé l’esigenza di un “nuovo contratto sociale” (2003). Di conseguenza, diventa ancor più urgente una riformulazione del pensiero e dei saperi che coinvolga direttamente sia la scuola che l’università, purtroppo ancora pensate e organizzate come “entità” separate le cui politiche (?) andrebbero progettate in chiave sistemica; una riformulazione del pensiero e dei saperi in prospettiva aperta e multidisciplinare, che sappia (evidentemente) tener conto e valorizzare la specializzazione di conoscenze e competenze, superando quella visione distorta e fuorviante che la vede incompatibile con la complessità e l’approccio che essa sviluppa. Quanto detto dovrebbe concretizzarsi in proposte e strategie educative funzionali alla costruzione sociale del cambiamento che, ricordiamolo, se imposto esclusivamente come processo dall’alto è (e sarà) sempre un cambiamento esclusivo, per pochi e di breve periodo. Occorre prendere definitivamente coscienza che questo è il vero “fattore” strategico del cambiamento e dei processi di innovazione: il “fattore” culturale, una variabile complessa in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare i processi economici, politici, sociali. E il livello strategico è quello concernente i processi educativi di cui sono protagoniste (dovrebbero esserlo) la scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione che, peraltro, si son viste divorare da media, reti e gruppo dei pari lo spazio educativo e della socializzazione; è il livello cruciale dove è possibile costruire, oltre che “teste bene fatte” (pensiero critico, pensiero sistemico, educazione alla complessità), la cultura della legalità, della prevenzione, della responsabilità, del rispetto, della non-discriminazione e determinare le condizioni socioculturali per un ridimensionamento dell’egemonia dei valori individualistici ed egoistici, che hanno significativamente contribuito all’indebolimento del legame sociale e della Comunità. Percorsi che, inevitabilmente, si incrociano, fino a sovrapporsi, e che riguardano allo stesso tempo teoria e ricerca scientifica, scuola e università, cittadinanza e democrazia, eguaglianza delle condizioni di partenza e inclusione.

Percorsi nella complessità sociale e organizzativa

Per ciò che concerne la complessità sociale e organizzativa, siamo di fronte ad una complessità che sfugge ai tradizionali meccanismi e dispositivi di controllo sociale e sorveglianza e che richiederebbe, come in passato ho avuto modo di argomentare più volte, una riformulazione del pensiero ed una ridefinizione dei saperi che dovrebbero contribuire proprio a ridurre/metabolizzare tale complessità, definendo, quanto meno, condizioni di prevedibilità dei comportamenti e delle dinamiche all’interno ed all’esterno delle organizzazioni e dei sistemi: in tal senso, Edgar Morin parla di “riforma del pensiero”: «La riforma del pensiero esigerebbe una riforma dell’insegnamento (primario, secondario, universitario), che a sua volta richiederebbe la riforma di pensiero. Beninteso, la democratizzazione del diritto a pensare esigerebbe una rivoluzione paradigmatica che permettesse a un pensiero complesso di riorganizzare il sapere e collegare le conoscenze oggi confinate nelle discipline. […] La riforma del pensiero è un problema antropologico e storico chiave. Ciò implica una rivoluzione mentale ancora più importante della rivoluzione copernicana. Mai nella storia dell’umanità le responsabilità del pensiero sono state così enormi. Il cuore della tragedia è anche nel pensiero».

Alla luce di quanto appena detto, alcune considerazioni di carattere generale si impongono per lo sviluppo della nostra analisi che, evidentemente, non può che prendere le mosse all’interno di un processo di ripensamento complessivo del rapporto tra teoria e ricerca, tra teoria e prassi (si alimentano vicendevolmente); credo non si possa non prendere atto di come la complessità, l’ambivalenza, la varietà delle forme e la rapidità del mutamento in atto abbiano evidenziato, senza margini di discussione, l’urgenza di (quanto meno) ripensare il paradigma (1996) e le stesse categorie concettuali con le quali abbiamo definito e interpretato la realtà fino ad oggi. La complessità sociale e organizzativa, pur nella sua particolarità, costituisce sempre un problema di conoscenza e di gestione della conoscenza (Dominici 2003, 2011), di possibilità conoscitive che possono essere effettivamente selezionate e realizzate, tradotte in scelte e decisioni – mi viene in mente anche la weberiana sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo. Una complessità, così come l’abbiamo intesa, ulteriormente accresciuta e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare (nella cd. Società Interconnessa -> + informazioni + dati = + razionalità nelle scelte e nelle decisioni), ancor più imprevedibile – nonostante la dimensione del tecnologicamente controllato sia aumentata in maniera esponenziale –  proprio in virtù dell’enorme (infinita) mole di dati e informazioni che, non soltanto non parlano mai da soli, ma determinano una condizione permanente e costante di razionalità limitata (sulla razionalità limitata, tema a noi molto caro, e sulle “variabili” che la caratterizzano, torneremo) a tutti i livelli, da quello organizzativo a quello sociale. Il “dato di fatto” è che non siamo pronti ad affrontare le sfide e i dilemmi (Popper) della complessità e del nuovo ecosistema, non tanto in termini di metodologia/e della ricerca (e di strumenti di rilevazione, sempre più affinati), quanto di modelli teorico interpretativi che devono (dovrebbero) guidare/orientare l’osservazione empirica, non soltanto scientifica, di fenomeni e processi. Ma servono educazione e formazione alla complessità e una rinnovata consapevolezza rispetto all’esigenza di un approccio multidisciplinare a questa stessa complessità che implica una ridefinizione dello spazio dei saperi e il ribaltamento di quelle logiche di potere e controllo che, a tutti i livelli, ne hanno sancito la parcellizzazione e reclusione dentro gli angusti confini delle discipline;  discipline sempre più isolate e incapaci di comunicare tra di loro – con profonde implicazione anche per l’esterno delle torri d’avorio.

Questa è “il” problema, è “la” questione, non la specializzazione dei saperi, processo d’altra parte inevitabile con l’affinamento delle metodologie di ricerca e degli strumenti di rilevazione; specializzazione spesso maldestramente contrapposta alla complessità e al relativo approccio, ma anche ai concetti di multidisciplinarietà e interdisciplinarietà. Il “vero” ostacolo, oltre alle culture organizzative ed alle logiche dominanti, sono proprio le separazioni/steccati disciplinari – si pensi all’annosa e, per certi versi, incredibile distinzione tra discipline umanistiche e materie scientifiche, tra formazione umanistica e formazione scientifica (uno dei motivi del nostro ritardo culturale che tanti danni produce ancora) – che, non soltanto ostacolano l’osservazione e la comprensione della realtà (a livello sociale e delle organizzazioni complesse), la produzione sociale e la condivisione della conoscenza (architrave del nuovo ecosistema), ma si rivelano anche non in grado di restituire quello sguardo d’insieme e quell’ottica globale che gli attuali processi sociali, politici, culturali richiedono costantemente. In tal senso, continuo ad esser convinto, e su questo approccio ho sviluppato le mie ricerche, che l’innovazione tecnologica costituisca da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni ma che questa, se non supportata da una cultura della comunicazione, da una visione sistemica della complessità e, a livello di decisore politico, da politiche sociali (lungo periodo) in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale (centralità strategica di scuola, istruzione, università), si riveli sempre un’innovazione mancata. La società della conoscenza e il nuovo ecosistema globale (1996) – che, non solo per queste ragioni, ho preferito parlare di “Società Interconnessa” – sono destinati a diventare sempre più esclusivi e chiusi, anche in quei “luoghi” in cui non è ancora possibile erigere muri e barriere per gestire (?) la diversità, le disuguaglianze e i conflitti. Sono i germi di quella che abbiamo definito la “società asimmetrica”: una società apparentemente aperta e inclusiva che, in realtà, garantisce opportunità di inclusione e mobilità solo in linea teorica e a livello di quadro giuridico di riferimento. Quest’ultimo, necessario ma non sufficiente a costruire e, appunto, garantire i pre-requisiti di una cittadinanza piena e partecipata.

La complessità dei sistemi sociali e organizzativi, che caratterizza evidentemente anche le interazioni umane e quelle uomo-macchina, oltre al sistema della relazioni nel suo complesso, è un tipo di complessità del tutto particolare e difficilmente riducibile (cfr. Skinner, Ashby, Luhmann) in quanto chi la osserva (studia e analizza) e tenta di comprenderla è allo stesso tempo osservato (vecchio, ma fondamentale, concetto di “osservazione partecipante” – e partecipata ; uno dei tanti concetti della ricerca sociale definiti, e operazionalizzati, molto tempo fa e oggi recuperati in tutti i settori della ricerca e delle organizzazioni); si attivano, di conseguenza, tutta una serie di fattori di condizionamento che modificano, non soltanto la percezione, ma anche le condizioni empiriche dell’evento osservato e perfino l’atto stesso dell’osservare. Oltretutto, occorre considerare che tali dinamiche, oltre a manifestarsi sempre in chiave sistemica (ecco l’importanza di un approccio multidisciplinare e alla complessità) e ad essere caratterizzate dal venir meno del principio di causalità (A -> B — valore probabilistico e statistico delle conoscenze), si evolvono dentro un sistema di conoscenze sociali preesistenti.

Sembra scontato dirlo – non è così, anzi spesso si ha l’impressione che non ci sia sufficiente consapevolezza – ma la stessa conoscenza scientifica, come qualsiasi attività di ricerca e innovazione, si sviluppa dentro contesti storico-culturali determinati che sono essi stessi “fattori” di condizionamento…si pensi, tra le questioni, alla weberiana impossibilità di una conoscenza realmente avalutativa della realtà. Eppure è ancora molto diffusa la convinzione che formazione umanistica e scientifica possano/debbano essere tenute separate.

E dobbiamo sempre considerare che, quando parliamo di “sistemi complessi”, ci stiamo riferendo a sistemi costituiti da molteplici elementi e variabili, a loro volta caratterizzati da legami (non facilmente riconoscibili) e complessi processi di retroazione, che non è possibile osservare isolandoli dal contesto di riferimento. Le parti, che costituiscono i sistemi complessi, sono sempre strettamente interdipendenti ma non è mai così semplice individuarne i legami e le correlazioni. Questo perché siamo quasi sempre di fronte a dinamiche instabili, che rendono inefficace qualsiasi spiegazione deterministica e riduzionistica. Allo stesso tempo, esistono differenti livelli di descrizione che richiedono lessico e codici adeguati e pertinenti.

Epilogo: la complessità e qualche errore di prospettiva 

Siamo tornati a ragionare sulla questione complessa della complessità e, nel concludere questa riflessione, non possiamo fare a meno di rilevare come, attualmente, tutti ne parlino e, per certi versi, ciò costituisce senz’altro un aspetto positivo (anche così cambiano i climi culturali); si potrebbe dire, con uno slogan, “tutto è complessità”, analogo all’altro famoso slogan “tutto è comunicazione”, che peraltro a tutto è servito meno che a chiarirne la rilevanza strategica; ecco, il rischio è proprio quello della banalizzazione, del discorso pubblico che, seguendo le consuete logiche della polarizzazione, struttura le agende delle opinioni pubbliche, lasciando pochissimo spazio all’approfondimento ed alla valutazione critica delle posizioni in campo. Mi ripeto, ma ritengo questo punto del ragionamento fondamentale: complessità e specializzazione, multidisciplinarietà e specializzazione non sono in alcun modo antitetiche, né tanto meno rappresentano delle dicotomie. Necessario ripartire dall’esigenza di coniugare teoria e ricerca/pratica, conoscenze e competenze (non soltanto “tecniche”), umano e tecnologico non cadendo nella trappola, non soltanto argomentativa, dell’inutilità dei saperi (su utilità/inutilità della conoscenza ci sarebbe da dire tantissimo, ma ci torneremo). Su queste false dicotomie, d’altra parte, sono state costruite carriere, aree di potere, sfere di influenza  e sono stati venduti tanti libri, anche a danno dei nostri giovani (purtroppo)  e, più in generale, dell’evoluzione rimasta incompiuta della nostra cultura. A più riprese e in tempi non sospetti, abbiamo sottolineato il rischio di un’innovazione tecnologica senza cultura e di un declino che, come quello di tutti i Paesi più “avanzati”, parte proprio dalla Scuola e dall’Università, private o, quanto meno, indebolite rispetto alle loro funzioni vitali per una democrazia compiuta. E NOI, come Comunità, paghiamo ancora un dazio pesantissimo per la persistenza e il radicamento di queste “false dicotomie” (Dominici) che innervano e strutturano la nostra Scuola e la nostra Università, la nostra ricerca e i relativi percorsi didattico formativi.

Il “mondo” e la “realtà”, non da oggi, sono complessi, anzi ipercomplessi ma, al di là del discorso pubblico che fa suoi, di volta in volta, temi e questioni considerati alla moda (trend), continuiamo a tenere ben separate le “due culture” e ad educare adottando modelli interpretativi lineari – quando poi non si presentano problemi di logica e analfabetismo funzionale, purtroppo molto diffusi – ricadendo puntualmente in interpretazioni deterministiche e riduzionistiche. Concludo con le parole usate in altro contributo: “Occorre, pertanto, essere consapevoli – non soltanto a parole e nel discorso pubblico – che il futuro (come ripetiamo sempre, la “vera” innovazione, quella sociale e culturale) è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali (sulle competenze: non mi stancherò mai di ripeterlo…sono necessarie sia le hard che le soft skills). Facendo attenzione alle continue tentazioni delle vie brevi, delle soluzioni semplici, delle strade giù percorse e, per questo, rassicuranti che spesso nascondono soltanto interessi economici e di potere, visioni ideologiche rese ben visibili, oltre che accettabili e condivisibili, attraverso un’incessante attività di promozione e marketing degli eventi. […] “Innovare significa destabilizzare”, ma occorre, prima di tutto, educare e formare criticamente le persone a pensare con la loro testa e a vedere gli “oggetti” come “sistemi” (e non viceversa)*”.

Da tempo, infatti, non sappiamo più guardare/osservare l’insieme, il sistema, l’intero, la globalità, il sistema di relazioni e/o interazioni che li caratterizzano; in altre parole, ne riconosciamo con difficoltà legami, correlazioni, nessi di causalità: proprio perché siamo stati educati e formati (nella migliore delle ipotesi) a descrivere, registrare regolarità, ai “come” e non ai “perché”;  siamo stati educati e formati a cercare (?) e ad accontentarci di risposte semplici e/o pre-codificate, in ogni caso, ottenute in poco tempo: eppure, in futuro, per affrontare l’ipercomplessità, dovremo essere in grado di farlo, di invertire queste preoccupanti tendenze, sempre nella piena consapevolezza della rilevanza strategica del processo inarrestabile di specializzazione di saperi e conoscenze.

 

Alcuni riferimenti bibliografici (una selezione):

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Docente universitario e formatore, insegna Comunicazione pubblica presso l’Università degli studi di Perugia. Membro dell’Albo dei Revisori MIUR, fa parte di Comitati scientifici nazionali e internazionali. Si occupa da vent’anni di teoria dei sistemi e di teoria della complessità con particolare riferimento alle organizzazioni complesse ed alle tematiche riguardanti cittadinanza, democrazia, etica pubblica. Svolge attività di ricerca, formazione e consulenza presso organizzazioni pubbliche e private. Ha partecipato, e tuttora partecipa, a progetti di rilevanza nazionale e internazionale, con funzioni di coordinamento. Relatore a convegni internazionali, collabora con riviste scientifiche e di cultura. Autore di numerosi saggi e pubblicazioni scientifiche, tra le quali: Per un’etica dei new-media (1998); La comunicazione nella società ipercomplessa.Istanze per l’agire comunicativo (2005); La società dell’irresponsabilità (2010); La comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza per governare il mutamento (2011); Dentro la Società interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosistema della comunicazione (2014).

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