Fortuna, sfortuna e rinascita di un archetipo narrativo: il caso Annabelle Gibson

“I segreti sono all’origine dei comportamenti asociali, immorali e distruttivi. E se ci comportassimo tutti come se fossimo osservati? Porterebbe a un modo di vivere più morale. Saremmo finalmente costretti a essere la versione migliore di noi stessi. Finalmente, finalmente possiamo essere buoni. In un mondo dove le brutte strade non sono più un’opzione, non abbiamo altra scelta che essere buoni…Perché la nostra voglia di vedere il mondo non dovrebbe essere soddisfatta? Ecco la massima trasparenza. Senza filtri. Vedere tutto. Sempre. Tutto quello che succede sarà conosciuto. Diventeremo onniveggenti, onniscienti”.

Dave Eggers, The Circle

Il web è il mondo interconnesso. La rete è il banco di prova che le attuali tecnologie descrivono in modo efficace la naturale predisposizione degli uomini alla cooperazione, alla collaborazione e all’empatia. Ma la rete è anche un sistema complesso che si prende cura e aggredisce allo stesso tempo. La storia della famosa blogger australiana Annabelle Gibson, fondatrice di una piattaforma molto seguita sulla sana alimentazione orientata al benessere fisico e sulle cure alternative, risale a marzo del 2015 quando – dopo aver promesso una ingente donazione dei suoi proventi avendo dichiarato di essersi curata con i suoi rimedi da un cancro allo stadio terminale (metastasi ormai diffuse in tutto il corpo) – è venuto a galla che si trattava di una frode. La Rete dà, la Rete toglie. Così il suo nome, ad appena 24 anni, è già scritto tra le tante voci dell’enciclopedia del mondo, Wikipedia, che nel box riassuntivo a destra del video, prima del testo esplicativo, alla voce Know For riporta «Fabricate claims of having had multiple cancers wich were selftreated through diet and alternative medicine». La spiegazione continua, ma a noi basta per proporre una serie di riflessioni.

Per chi volesse approfondire la storia di questa blogger, basta una ricerca su Internet ed escono svariati articoli, quasi tutti di condanna del deprecabile comportamento orientato alla truffa e al millantato credito. Quando ho letto la storia della Gibson, dapprima ho pensato maliziosamente: quasi tutti i media che ne parlano concordano nel far partire l’indagine approfondita sulla veridicità delle tesi di Annabelle dalla mancata donazione in beneficenza di quei 300.000 dollari. Come se, invece, il fatto di essere guarita da una malattia terminale che – come lei stessa dichiarava – le aveva infestato ogni organo del corpo, fosse una cosa normale. Poi, di fatto, ho capito. Il punto reale della questione è dove finisca il limite tra il bisogno collettivo di empatia, che riscatta il mondo dall’essere quotidianamente testimone della sofferenza, e la coerenza dell’autore nel raccontare una storia proposta come un archetipo curativo che, nel comportamento degli utenti, diventa la richiesta di mettere in gioco la sensibilità, la compassione, la solidarietà per mezzo di un rito collettivo, unificante. Quello della fiducia e, soprattutto, dell’immedesimazione.

Annabelle, che ha dato vita all’applicazione The Whole Pantry nel 2013, ha avuto un successo incredibile con 200.000 download nel primo mese e con oltre 1 milione di dollari d’incassi stimati nel 2015 tra l’applicazione distribuita sull’Apple Store e un manuale di cucina pubblicato da Penguin Publishing. Questo ha fatto decollare la sua storia fino a farle assumere le sembianze di un racconto di miracolosa resurrezione, valido per ogni essere umano tenuto in vita dalla speranza di guarigione e utile a reiterare il paradigma narrativo per cui l’autodeterminazione e la forza interiore possono contrastare ogni male. Lo storytelling qui va visto in una doppia valenza: non si tratta soltanto del racconto di un percorso di cura, ma della celebrazione dell’utopia dell’empatia globale, come scrive Laura Boella in un saggio nella raccolta Un mondo condiviso.

La filosofa cita il romanzo The Circle di Dave Eggers, il quale racconta la storia di una ragazza, Mae, che entra in una grande corporate tecnologica americana (citazione della Silicon Valley) chiamata appunto The Circle. Qui Mae trova i cervelli più potenti, gli utopisti più convinti, gli innovatori più all’avanguardia. Persone che desiderano migliorare il mondo, di cui però cominciano a soffrire l’imperfezione, il degrado. Piano piano, nel racconto di Eggers, il cerchio si chiude e le persone iniziano a diventare parte di un grande organismo settario che li priva lentamente della personalità e della specificità della propria vita: i sentimenti, le amicizie, gli amori, le idee, tutto diventa oggetto di controllo nell’ideale fusione di ogni individualità in un unico e pilotato flusso vitale. In questa trama orwelliana è facile trovare la morale.

Quello che a noi interessa è che l’empatia globale non ammette distinzione tra la partecipazione collettiva alla sofferenza del mondo e l’azione individuale, soggettiva. È uno schermo che, nella presunzione di accomunare ogni essere vivente nello stesso destino di reazione al male che ci circonda, ne scopre i lati più fragili giudicandoli con severità e spietatezza. Così, una storia di frode – che era stata convenzionalmente accettata nel suo paradigma narrativo, senza contare se in effetti nel dolo abbia potuto portare alcun beneficio – passa a essere condannata per aver tradito la liturgia collettiva che vuole che il patto fiduciario tra chi racconta e chi crede debba rimanere sublimato in una dimensione di universale idealità.

Con questo non intendo dire che Belle Gibson sia difendibile. Lucrare sulla buona fede degli utenti è comunque qui un misfatto che deve essere perseguito. Alludo, piuttosto, al funzionamento degli schemi narrativi, che reggono se aderenti alla semplificazione dell’immaginario collettivo e, senza entrare nello specifico dei contenuti, delle interazioni e degli effetti generati sui singoli, crollano miseramente fino a inscriversi nella memoria della rete come anti-storia, con un antieroe e con un’antitrama. Vi ricordate, per fare un esempio, lo straordinario film del 2003 di Billy Ray L’inventore di favole? Si parlava della vera storia del giornalista Stephen Glass, che già a 23 anni entra nel The New Republic come talentuoso e dotato articolista di scandali legati ai comportamenti biasimevoli di esponenti politici e di grandi imprese. A causa di una serie di discrepanze e dopo un’attenta analisi, alcuni giornalisti investigativi e il direttore del giornale scoprono che gli articoli del giornale erano quasi tutti inventati.

Qualcosa di simile alla storia di Annabelle. Non vi sembra strano che da questa vicenda sia stato tratto un film? Mi viene il sospetto che – al di là del tempo necessario al perdono come pratica liturgica condivisa per esaltare l’anima potente e redenta del Bene sul canale digitale – la mitomania serva all’immaginario pubblico come grande magazzino di nuove storie da proporre. Fatto o misfatto, autore o peccatore, soluzioni o salvezza. In tutto ciò, il crossmedia la fa da padrone.

Lesson learned: visto che nello storytelling quello che agisce prima di tutto è la familiarità con un archetipo che, tra le grandi storie del mondo, sia di nutrimento per la nostra esigenza di empatia redentrice, forse c’è speranza anche per la Gibson, considerando che una delle storie più riuscite di sempre la scrisse Collodi.

 

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Laureato in Lettere Moderne, specializzato in management della cultura e progettazione europea, collabora con università, enti pubblici e imprese nel settore dell'innovazione e sviluppo sostenibile. Ricercatore e manager attento al cambiamento del mondo contemporaneo ha maturato competenze in diversi settori, dalle scienze sociali alla digital economy. È il fondatore della rete The Next Stop dedicata all'incontro tra il management culturale e l'innovazione, è fondatore di Lateral Training think tank dedicato alla consulenza sui temi del business coaching, corporate storytelling e marketing digitale. È trainer e formatore professionista, sia nell'ambito comportamentale che in quello del design di nuovi processi organizzativi. È presidente dell'Associazione Italiana Sharing Economy e Direttore Scientifico del primo festival di settore, il Ferrara Sharing Festival. È in via di pubblicazione il libro per Franco Angeli Corporate Story Design, manuale per la progettazione e gestione di storie d'impresa. È web designer e senior content marketer per passione, curiosità, professione. Ama leggere, scrivere, vedere film in quantità industriale e occuparsi di nuove tendenze e linguaggi dell'ambiente digitale. Non disdegna gli studi sulla gamefication e il game design. Ha fondato diverse riviste, Event Mag, Limemagazine, The Circle (ancora in pubblicazione). Dal punto di vista tecnico è certificato come: esperto di epublishing Amazon Kindle, esperto di newsstand application design Apple-iTunes store ed esperto di sistemi WooCommerce per wordpress.

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