Il futuro? È in mano ai poeti. Chatbots, robot o uomini che siano

«Vender un sogno via robot: possibile? O solo un sogno?». Se questa era la domanda che ci ponevamo solo un paio di settimane fa, già oggi verrebbe quasi da ribaltarla: chiedendoci se non saranno piuttosto i robot – in un domani non troppo lontano – a porsi lo stesso problema pensando agli uomini. Domandandosi cioè, bot e robot in primis, se per «vender un sogno» servano ancora a qualcosa gli human beings: se siano «ancora» in grado di ideare, costruire come architetti – i vecchi artigiani di un tempo, all’insegna però della massima innovazione – Customer Experiences memorabili, Customer Journey da sogno. Di fare business, insomma, che renda davvero e porti al successo, in quanto si realizzi nella pratica quanto a lungo predicato nella teoria: aiutare e assistere il «cliente-amico» col Cuore sempre, 24 ore al giorno e 7 giorni su 7. Un #HeartMarketing che sia #HelpMarketing fino in fondo: #SellHelp, #SocialCare, Customer Care a 360°, in senso ampio e totalizzanteoltre la «semplice» assistenza tecnica al cliente, ove ci si mette in gioco e ci si fa in quattro pur di assicurare a chi si a di fronte una #CustomerExperience davvero indimenticabile.

«Che cosa?!?», starà già gridando qualcuno, sgranando gli occhi. «Il cuore – quel “cuore” che fa vendere in quanto rende il volto del brand affidabile, amico, tanto utile da render impossibile non servirsene e non comprarlo – si troverebbe dunque più facilmente in un robot che in un uomo?».

Beh, anche sì – verrebbe da rispondere provocatoriamente – se bot, chatbots, robot, e i più svariati prodotti della Artificial Intelligence garantiscono di essere sempre lì per te, pronti al tuo servizio, a qualsiasi ora del giorno e della notte, per qualunque tua necessità: e di esser sempre gentili, mai spazientiti – se programmati per questo – magari anche con gli haters, i troll, con cui sappiamo quanto sia invece facile, per «noi», perder anche comprensibilmente la pazienza.

Un mondo dominato da robot. Un mondo, del lavoro ad esempio, dove di uomini non ci sarà più bisogno o quasi. È forse questo il futuro verso il quale camminiamo a larghi passi?

Alt. Prima di proseguire su questa strada, fermiamoci a riflettere. Il futuro, infatti, ci appare tutt’altro che deciso. O, quantomeno, il dibattito attuale è quanto mai multiforme e sfaccettato.

Facciamo chiarezza, allora: guardandoci indietro. Tre gli step, a mio avviso, caratterizzanti cronologicamente e nella sostanza la discussione sul tema negli ultimi mesi.

  1. La sorpresa: l’effetto Wow! Più o meno scientificamente elaborato e consapevole – teorizzato e tematizzato da nerd, addetti ai lavori e specialisti del settore, osservato e raccontato con stupore quasi infantile, giovanilistico, da early adopters e comunicatori vari, simili a bimbi stupefatti e sbigottiti nel trovare tanti regali di Natale inattesi e ignoti sotto l’albero, ricchi di promesse e tutti da scartare – è quello che ha portato mezzo mondo (e l’altro mezzo pure) a parlar per mesi di Chatbots Revolution, di «Fenomeno Chatbot e #AI», e di cui abbiamo dato conto qui puntualmente, di settimana in settimana. I titoloni si sono susseguiti. Un tam tam davvero virale, in un hype sempre maggiore: fattor comune, l’inneggiare all’alba di una nuova era, una nuova Terra dell’Oro. Una «Great Bot Rush», una «Corsa all’Oro dei Bot», «la Rivoluzione più grande dai tempi dell’iPhone»: fatta da «Bot People» (scriveva Riccardo Staglianò su La Repubblica), dove «Le App verticali sono morte» (sentenziava Massimo Sideri per il Corriere della Sera), ma proprio perciò si poteva gridare «Lunga vita alle chat bot», «Welcome to the post-app world».
  1. La prudenza, se vogliamo usare un termine neutrale, coerente con un’analisi logico-razionale. «Passo indietro» anche, paura, se volessimo invece declinare il termine al negativo, come sempre più osservatori hanno preso a fare, preferendo però tradurre e sintetizzare la propria posizione come presa di coscienza «sana e fredda» della realtà Chatbots ad oggi, al di là di fantasmagoriche previsioni. Questa è la posizione di chi, in particolare dopo l’esplosione esponenziale del fenomeno a metà aprile, dopo l’#FBF82016 e la viralizzazione di bot e chatbots – con la loro introduzione in Facebook e Messenger, quelle «macchinette» da miliardi di utenti da cui ormai passa il mondo e tanto di massa che, ormai, neppure la casalinga di Voghera può sottrarsi all’incontro-scontro con questi robottini virtuali – ha tirato i freni e richiamato l’attenzione sulla imprescindibilità del fattore umano, del «capitale umano», sulla sua «superiorità sulla macchina», su quel quid che gli human beings avrebbero – e solo loro appunto: il Cuore… – tale da renderli comunque e sempre preferibili a una «intelligenza [solo] artificiale», pur nella sua limitatezza e fallibilità. «Ma ciò che resta lo istituiscono i poeti», diceva Friedrich Hölderlin ripreso da Martin Heidegger che, proprio in dialogo con la poesia, ha costruito tanta parte della sua filosofia – della sua interpretazione del mondo, di chi siamo noi qui e oggi. Così, oltre un secolo dopo, il Washington Post ammonisce: «The next hot job in Silicon Valley is for poets».  Richiamando con ciò l’attenzione sulla necessità di «poeti fra i robot, per i robot» e dunque, in ultima analisi, per gli uomini: sull’imprescindibilità dell’uomo per la costruzione e il buon funzionamento del bot, che all’uomo deve in ogni caso la propria esistenza e la propria utilità, la stessa virtuale capacità di arrivare a traguardi irraggiungibili per l’uomo.
    D’altronde, che «i Robot possano apprendere i valori umani leggendo romanzi» non è cosa che ci è nuova. Il Guardian lo ricorda da mesi e, infatti, ne abbiamo parlato qui più volte. «Everyone is talking about the rise of chatbots; but are forgetting that humans are pretty good too», si scriveva sul blog di Intercom qualche settimana fa, ammonendo: «I bots non rimpiazzeranno gli uomini». Ancora il New York Times, riportando le conclusioni di un meeeting di studiosi di AI, promosso dalla White House Office of Science and Technology Policy, ha titolato «Artificial Intelligence Is Far From Matching Humans», dando conto di come gli scienziati concordemente affermino che la ricerca sul tema è ancora lontana dalla «flessibilità e dalla capacità di apprendimento della mente umana. «La comunità scientifica continua a scalare una montagna dopo l’altra», ha detto Ed Felten, computer scientist tra i massimi esperti del settore, «ma come tocca la cima di una, ecco spuntarne subito una nuova».«Meno machine learning, più scrittura creativa», ha affermato di recente persino Giorgio Robino, Conversational Computing Evangelist & Software Engineer, nonché organizzatore del Primo Chatbots-Day Italiano, il 24 giugno a Milano, «Il Conversational Computing e la rivoluzione dei chatbots». Uno che insomma a bot e chatbots tiene più di un po’, ma che costantemente ricorda come «i chatbots, nel 2016, hanno in realtà poco a vedere con l’intelligenza artificiale» e quanto «scettico» si senta circa il «paventato “passo avanti per l’umanità”». Meglio un’innovazione intesa come «cooperazione di competenze umane», dove alle skills di computer science siano affiancate quelle umanistiche. «Servono scrittrici, drammaturghi, psicologhe, sceneggiatori» per lo sviluppo di «chatbot persona», in grado di porsi un giorno come «sistemi intelligenti, con qualche abilità cognitiva».

    La sintesi forse più bella? Quella data niente meno che da Ryan Stelzer, cofondatore di Strategy Of Mind e guru del settore, che in un magistrale pezzo su Pulse ha indicato in Aristotele il «responsabile creativo», il «costruttore» di un Brand – un luxury brand, nello specifico – quale quello del celebre Brunello Cucinelli, imprenditore di vecchio stile, di quelli che han fatto il benessere dell’Italia, partendo da zero e creando un impero nel mondo della moda. Basato su cosa? Sulla «impresa umanistica», che risponda ai principi dell’etica, dove «punto di riferimento sia il bene comune» e al centro vi sia l’uomo, il capitale umano. L’exit strategy insomma, in questa vision, non starebbe tanto nell’implementazione di una Intelligenza Artificiale, ma nello sviluppo di tutte le potenzialità intrinseche a quella «Intelligenza [non] Artificiale», bensì «naturale, umana», che già c’è – e che è dovere del capo anzitutto rendere fertile all’ennesima potenza.
    Qui umanesimo, scienze umanistiche e filosofia la fanno da padrone, dettando loro – non la tecnologia, essenziale ma solo strumento – l’orizzonte concettuale in cui operare e far operare ogni azienda. Una tale valorizzazione della #EmployeeExperience è garanzia della #CustomerExperience di successo: dunque del ROI. Un #EmployeeEngagement ove bot, robot e AI, lungi dall’esser dimenticati, sono piuttosto ideati e creati in funzione dell’uomo, incomparabilmente superiore a qualsiasi macchina oggi, domani e sempre.
    «Solo sottoponendo chatbots e robot a letteratura, filosofia, testi umanistici, si può sperare di creare artificial agents meno artificiali e più umani», conclude Stelzer. Se no, meglio non perderci tempo.

  1. La preveggenza della [fanta]scienza. È l’atteggiamento di chi, con risvolti pessimistici o ottimistici a seconda delle prospettive, ritiene di veder già chiaro e scritto un futuro imminente quanto mai. «Un robot ci seppelirà», verrebbe da sintetizzare. Più esattamente, dominante è qui l’idea di un domani (un oggi…) in cui certo, con i debiti aggiustamenti e miglioramenti all’AI, peraltro già in fieri da tempo, i robot sostituiranno l’uomo in buona parte del mondo del lavoro, rendendo desueti tanti ruoli e finendo così per metter in seria discussione la presunta primarietà dell’essere umano in generale. Foxconn ha d’altronde già sostituito 60.000 posti di lavoro con robot: e grande scalpore ha suscitato la notizia di una compagnia, DAO, «Decentralized Autonomous Organization», che senza alcun CEO, ma guidata solo da un Computer Code, ha appena «rastrellato» – come titolano testate online e offline – «100 milioni di dollari».
    Ci sarebbe anche una data: 2029. Per allora «i chatbot saranno simili agli umani», stando almeno alle recenti dichiarazioni di Ray Kurzweil, al lavoro con il suo team e Google per sviluppare i più avanzati progetti di Artificial Intelligence. D’altro canto proprio «Big G» – la cui attività nel settore è in frenetico sviluppo tra AlphaGo e Chirp, Allo, Duo e Google Home – ha lanciato di recente Project Magenta, tra i più promettenti programmi di ricerca per «educare» i robot a raggiungere quelle vette di perfezione che da loro ci si attende: ad essere cioè… «umani-troppo-umani», «truly creative», fino a giungere – dopo intensa e continua somministrazione di romanzi e liriche, arte e letteratura, pensieri e filosofia –  a creare «personalmente» opere d’arte, versi, musica. Come accaduto di recente al Moogfest, dove le Intelligenze Artificiali made in Google sono riuscite a dar vita a un quadro niente male, a un motivetto musicale già significativo, evolutosi poi in un minuto e 32 di «vera musica» [?] – come prontamente rilanciato da The Verge e The NextWeb – su cui puoi anche metterti a ballare, ascoltandolo qui.
    E se per caso pensi che questi robottini virtuali non siano già in grado di far molto più che spennellare un quadretto o metter insieme due note per una suoneria – per non parlar di poesie d’amore dalle chiuse incerte, del tipo «Voglio ammazzarti!», come dicevamo qui la volta scorsa – forse non sai che possono già… intervistare i morti. Come ha fatto The Drum con David Ogilvy grazie alla tecnologia IBM Watson: che, dopo essersi trangugiata «vita & opere» del leggendario pubblicitario, ha reso possibile realizzare la prima intervista con Ogilvy a 17 anni dalla morte.
    La discussione sul tema è infuocata: come gli animi, ché basta niente per accenderli e suscitare dibattiti anche splendidi, stimolanti, ricchi di spunti e riflessioni, come quello sviluppatosi giusto l’altro giorno, quasi casualmente, sul mio profilo Facebook. Chi con tante domande, chi con le idee molto chiare: ove emergeva come certi dibattiti sul valore dell’#EmployeeEngagement giungano oggi ormai in ritardo dato l’imminente avvento delle «aziende senza personale» – sosteneva in particolare l’ottimo Roberto Marsicano – con «due soli dipendenti: un uomo e un cane», ove «l’uomo avrà cura del cane, e il cane» si occuperà «di non far toccare le macchine».

Questo lo stato dell’arte. Che ne penso io? Bella domanda. Al momento, forse, preferisco aspettare e osservare: non per un infantile timore di scender in campo, bensì perché tanto fluidi sono questi nostri tempi, tanto «liquidi» gli spazi entro cui ci muoviamo e tanto frenetico il cambiamento, che vale forse la pena studiare ancora un po’ il fenomeno e vedere la via che si decide a intraprendere la [presunta] Chatbots Revolution.

Da parte mia, però, di due cose mi son «fatta persuasa»:

  1. Vero è quanto dice Roberto in un suo bel post su Pulse di LinkedIn: «Una nuova filosofia…serve un nuovo modo di pensare, un nuovo modo di educare le nuove generazioni a essere pronte per un futuro mutevole e variabile».
  2. Proprio in tal senso questa «nuova filosofia», questa nuova vision tanto necessaria per reinquadrare la prospettiva e riprogettar i modelli sin qui esistiti sta in un semplice concetto – una semplice «esperienza vissuta»: quella della «Parola-Utile-Per-Te», della «Parola-Utile-Che-Salva» in quanto Ama e Aiuta. Se oggi si vende aiutando, mettendo se stessi, Cuore e testa a servizio degli altri a 360°, in un «marketing del volontariato» che solo può assicurare una #CustomerExperience davvero memorabile, allora a vincere è chi parla la lingua dell’Amore, del Cuore, dell’Aiuto totale e totalizzante: anche (e qui soprattutto) verso il proprio «cliente amico». A vincere è chi dice quella Parola che ti aiuta davvero: quel consiglio, testimonianza, parere, che ti salva la vita in quel momento di emergenza per te non più rinviabile. Che una tal Parola debba venir dagli uomini – superiori a macchine, software e meccanismi automatizzati – o da chatbots e robot che, magari, finiremo per costruire tanto bene da porli in grado di realizzare ciò in cui noi invece abbiamo fallito e falliremo, poco importa. Da buona «filosofa nel DNA», lo ammetto, mi unisco al motto hlderliniano «Was bleibet aber, stiften die Dichter»: «Ma ciò che resta lo istituiscono i poeti». Che però poi a poetare, scrivere, creare, sia un robot o un uomo in carne e sangue, poco cambia. Purché il messaggio comunicato e che diverrà dominante, la «Parola detta», sia appunto quella Utile-Per-Te, che «ti Salva» in quanto «Ti Ama e Aiuta».

Chi avrà più «Cuore», a tal fine? Chi risulterà davvero alla fine capace di farsi in quattro per esser Utile-Per-Te? Ecco, questa è la domanda. E su questo la partita è aperta.

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