Open Hardware fattore abilitante di innovazione: parola di Massimo Banzi

Per Open Hardware o hardware open source ci si riferisce alle specifiche di progettazione di un oggetto fisico concesse con una licenza che ne consenta lo studio, la modifica, la creazione e la distribuzione da parte di chiunque. L’Open Hardware è infatti un insieme di principi di progettazione e pratiche legali, non uno specifico tipo di oggetto. In sostanza, open hardware è tutto ciò che rende un oggetto più semplice da riusare, remixare, ricombinare e quindi che potenzialmente dà vita a nuovi oggetti.

Il progetto italiano Arduino

Arduino è una scheda elettronica di piccole dimensioni con un microcontrollore ATmega, utile per creare rapidamente prototipi o utilizzabile sia a scopo professionale che didattico. È fornito di un semplice ambiente di sviluppo integrato per la programmazione, tutto il software a corredo è libero, e gli schemi circuitali sono distribuiti come hardware libero.

Il nome della scheda, come racconta Massimo Banzi, riprende il nome del bar di Ivrea frequentato da lui e da altri fondatori del progetto. In pratica si tratta di una scheda molto economica (a partire da 30 euro), che sta nel palmo di una mano e consente di applicare sensori, attuatori e altre componenti elettroniche da programmare con semplicità. Con Arduino si possono realizzare in maniera relativamente rapida e semplice piccoli dispositivi come controllori di luci, di velocità per motori, rilevatori di luce, temperatura e umidità e molti altri progetti che utilizzano sensori, attuatori oppure prevedono una comunicazione tra vari dispositivi elettronici. La semplicità d’uso viene dal framework per microcontrollori Wiring che permette di scrivere software per controllare un vasto numero di schede con microcontrollori. Il promotore dell’idea Wiring è stato David Cuartielles, chi l’ha sviluppato è invece uno studente colombiano, Hernando Barragan. Il progetto, nato nel 2003, è open source quindi grazie al contributo di diversi programmatori si è evoluto fino a diventare come lo vediamo oggi. La grafica di Wiring si sviluppa su un altro progetto open source chiamato Processing, iniziato da Casey Reas e Ben Fry, entrambi ex della “Aesthetics and Computation Group at the MIT Media Lab”.

La storia 

La storia di Arduino inizia nel 2001, quando ad Ivrea Olivetti e Telecom Italia creano l’Interaction Design Institute, un istituto in cui si studia l’interazione tra esseri umani e sistemi informatici. Qui insegna Massimo Banzi, esperto di informatica che ha “studiato elettronica alle superiori, poi ingegneria all’università ma non ho finito, perché onestamente era un po’ noioso”. L’impulso creativo esplode nel 2002 quando Banzi inizia ad interrogarsi sul perché gli studenti si occupassero di tecnologia avanzata senza aver mai programmato nulla. Proprio lì dove si studiava l’interazione uomo-macchina, le macchine non interagivano con gli uomini. Arduino irrompe così nel mondo dell’informatica. La particolarità del progetto sta nell’aver sposato la filosofia open source di cui Arduino rappresenta un esempio di successo. La filosofia dell’apertura totale, dell’assenza di brevetti se non sul nome per il riconoscimento del brand, ha portato nel tempo sempre più persone a modificare la scheda, migliorandola attraverso la condivisione delle proprie idee. Il successo di Arduino è avvenuto anche e soprattutto grazie alle comunità composta da studenti, maker, professionisti e semplici simpatizzanti.

Nessuno aiuterebbe una grande azienda gratuitamente ma con l’open source è diverso – afferma Banzi – in un contesto open, azienda e utenti mettono in rete tutto; non esiste il segreto industriale e aiutare un’impresa diventa prendere parte a una causa in cui si crede. E gli ideali, si sa, muovono l’uomo più del denaro. I nostri obiettivi primari erano  il basso costo e la semplicità d’uso. Prima di Arduino schede di prototipazione ce n’erano tante ma costose per uno studente medio e complicate da usare”.

Gli impatti sull’innovazione

L’obiettivo di Arduino era aiutare gli studenti a comprendere come utilizzare la tecnologia realizzando prodotti di design del futuro. “Molti prodotti che noi oggi definiamo come IoT – racconta Banzi – all’epoca erano progetti sviluppati dalla scuola di Ivrea che considerava il design non nell’aspetto estetico ma attraverso la modalità con cui le persone interagiscono con gli oggetti e i servizi. Il vero problema era creare degli strumenti utili a far progettare in maniera semplice i ragazzi senza che questi avessero troppe competenze di elettronica o informatica. Non ci aspettavamo all’inizio che il progetto uscisse al di fuori del contesto accademico diventando altro come poi è successo. Arduino ha abilitato tantissime persone ad accedere all’innovazione innovando”.

Arduino ad un certo punto diventa riferimento per molte aziende, comprese le italiane, che lo utilizzano per sviluppare e implementare nuovi prodotti tecnologici interessanti creati in modo economico.

Questo processo – continua Banzi – ha permesso una innovazione democratica che ha coinvolto studenti e persone di tutti tipi, anche senza competenze o conoscenze specifiche. Le piattaforme hardware aperte accelerano l’innovazione permettendo lo sviluppo di oggetti non solo amatoriali ma anche industriali a costi contenuti”.

Open hardware fa rima con innovazione dunque?

La diffusione di piattaforme hardware aperte, e dei relativi software, – afferma Alberto Degradi, Infrastructure Architecture Leader Ciscosi inserisce pienamente nei processi di open innovation che investono, nello scenario digitale odierno, anche lo sviluppo del networking. Soluzioni come quelle che si possono sviluppare con i tool Arduino intervengono in particolare al livello cosiddetto di “field area networking”: il livello della sensoristica, dell’intelligenza portata negli oggetti, moltiplicando l’opportunità di connettere alla rete nuove tipologie di oggetti in modo semplice. In un’ottica di collaborazione aperta, ciò che la grande comunità di sviluppatori e tecnici può creare attraverso queste piattaforme è di grande valore anche per gli operatori “tradizionali” del networking”.

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