Pericoli e opportunità dello storytelling. Il Native Advertising

Una provocazione e non un neologismo. Il global storytelling non esiste e non è in alcun modo un’etichetta. Però, i fatti di questi ultimi giorni fanno riflettere perché, se da un lato la finzione comincia a prendere il posto della realtà, dall’altro l’unica vera possibilità di riscatto comincia a essere quella di trattare le informazioni e i contenuti con il dovuto rispetto.

Cominciamo a costruire l’argomentazione, facciamolo per bene.

Pochi giorni fa, a Melito Porto Salvo, si consuma uno dei fatti più inquietanti degli ultimi anni. Una ragazza di sedici anni confessa di subire da circa tre una serie di violenze sessuali da parte di un gruppo di ragazzini che la minaccia di renderli pubblici sul web. Due giorni dopo, a Napoli una ragazza si suicida per la vergogna di un paio di filmini porno girati per gioco e finiti nel circuito digitale tritatutto. Di recente leggo la notizia di una ragazzina di 17 anni che, a Rimini, in discoteca in stato di ubriachezza viene violentata da un ragazzo e filmata di nascosto da due amiche che poi disseminano il video su Whatsapp. Ora: non voglio esprimere un giudizio morale       (che, peraltro, è assolutamente scontato) né credo sia questa la sede per un’analisi socio-comportamentale sul tema dell’adolescenza ma, trattandosi di una narrazione e coinvolgendo comunque i media digitali, è utile mettere in chiaro alcuni meccanismi.

Cosa succede nel mondo virtuale?

Senza dubbio la convergenza di una serie di fenomeni ci sta lentamente portando su territori inesplorati. Innanzi tutto la progressiva confusione tra ciò che è vero e ciò che è finzione, con un mescolarsi di linguaggi e comportamenti che tendono a non mettere in evidenza alcuna linea di confine. La descrizione dei fatti della vita è talmente incastonata negli schemi e nelle trame della rappresentazione finzionale che, anche di fronte a fatti apparentemente gravi, si tende a ritrovarli in pattern appartenenti al mondo dell’entertainment industriale e finalizzarli a una fruizione edonistica e di intrattenimento. Si vivono le storie che passano nel web come situazioni neutre, nella presunta assenza di pericolose conseguenze rispetto alla vita reale. Del resto lo schermo tende ad appiattire, a rassicurare, non solo per la possibilità di costruire un anonimato blindatissimo e inespugnabile, ma anche perché non richiede alcuna identificazione emotiva, quella che si proverebbe nella vita vera sentendo su di sé il dolore degli altri. Si chiama empatia, è l’elemento che ci collega agli altri e sarà questo il prossimo obiettivo della società post-digitale.

Una riflessione importante riguarda l’iperproduzione di prodotti di fiction che, adattati ai più vari contesti, contribuiscono ad allenare la capacità percettiva e di riconoscimento di alcuni pattern narrativi, pur generando confusione rispetto al confine stabilito dalla realtà. È un’abilità inconsapevole che permette ai più di introiettare le strutture e i generi più frequenti nella comunicazione di massa. Il tema della violenza, ad esempio, può essere riportato a un’infinita gamma di varianti: il buono contro il cattivo, il bene sopraffatto dal male, l’impunità del crimine e il tentativo di riscatto, e via dicendo. Qualcosa di facilmente riconoscibile e continuativamente trattato. Si intuisce la forza della narrazione solo trovandosi nei panni della vittima, in una condizione di reale sofferenza, altrimenti il video-gioco continua ininterrotto e come ogni gioco si sviluppa in assenza di coinvolgimento psico-affettivo e in pieno esercizio di una meccanica rituale di gesti: lo sfottò, il tormentone mediatico, l’imitazione e la parodia, l’insulto (spesso pesante), il senso di impotenza e l’indignazione, il tentativo di difesa e assoluzione. Tutto questo teatrino si rappresenta giornalmente sui palinsesti del web. Il fatto che, ormai, la narrazione nel mondo digital sia un perpetuarsi di racconti spesso parte di una grande libreria dei tipi è, dal punto di vista dei media digitali, un’opportunità. Nel bel libro di Claudio Vaccaro sul Native Advertising, edito da Hoepli, si ripercorre l’evoluzione della pubblicità digitale. Lontano dalle antiche seduzioni di banner e pop up, il formato nativo integra i messaggi commerciali direttamente nel palinsesto dei contenuti. Anzi, a dirla tutta, la pubblicità diventa un contenuto che può prendere varie forme. Lo schema per il native advertising indicato da Vaccaro è:

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Questa radicale trasformazione del mondo advertising apre una serie di riflessioni. Perché il Native Adv funzioni è necessario un flusso ininterrotto di informazioni e notizie, un qualcosa che, come stiamo dicendo ormai da tempo, richiede una maturazione delle figure professionali che lavorano nella cura dei contenuti. Le motivazioni non sono da ricercare solo nella richiesta crescente di una migliore qualità, ma nell’urgenza di nuove sensibilità che sappiano capire nel modo più profondo la natura dalla comunicazione digitale, soprattutto per quel che concerne lo spazio delle conversazioni, che trova nei media sociali delle potenti piattaforme in grado di dare massima risonanza e moltiplicare, non solo in positivo, gli effetti del publishing. Ecco un esempio, tratto da una ricerca a ridosso dei fatti sopra descritti:

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Appena sopra ci sono due schermate. Alla ricerca del fatto di Rimini, su due diversi motori di ricerca, appaiono due annunci sponsorizzarti. In Yahoo la notizia diventa la strategia di promozione di una piattaforma social per incontri e nuove conoscenze, nella schermata successiva Google collega la pubblicità di un operatore anti violenza alla stessa informazione. È necessario considerare che la maggior parte delle piattaforme di advertising digitale utilizza gestionali che, per quanto sofisticati e ricchi di funzioni, e per quanto precisi nel posizionare un contenuto, si affidano ad algoritmi e alla combinazione di tag e parole chiave che, non filtrati da alcun curatore, non possono dare risultati matematici. Anzi, spesso peccano di grossolanità, pur rimanendo ad oggi gli strumenti più efficaci.

Forse è per questo che le imprese, nella costruzione di un contenuto, ricorrono sempre più spesso alla collaborazione con publisher e influencer professionisti, spesso in azioni di co-creazione che prevedono l’interazione e il coinvolgimento diretto del pubblico. Un fenomeno da seguire con interesse.

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Laureato in Lettere Moderne, specializzato in management della cultura e progettazione europea, collabora con università, enti pubblici e imprese nel settore dell'innovazione e sviluppo sostenibile. Ricercatore e manager attento al cambiamento del mondo contemporaneo ha maturato competenze in diversi settori, dalle scienze sociali alla digital economy. È il fondatore della rete The Next Stop dedicata all'incontro tra il management culturale e l'innovazione, è fondatore di Lateral Training think tank dedicato alla consulenza sui temi del business coaching, corporate storytelling e marketing digitale. È trainer e formatore professionista, sia nell'ambito comportamentale che in quello del design di nuovi processi organizzativi. È presidente dell'Associazione Italiana Sharing Economy e Direttore Scientifico del primo festival di settore, il Ferrara Sharing Festival. È in via di pubblicazione il libro per Franco Angeli Corporate Story Design, manuale per la progettazione e gestione di storie d'impresa. È web designer e senior content marketer per passione, curiosità, professione. Ama leggere, scrivere, vedere film in quantità industriale e occuparsi di nuove tendenze e linguaggi dell'ambiente digitale. Non disdegna gli studi sulla gamefication e il game design. Ha fondato diverse riviste, Event Mag, Limemagazine, The Circle (ancora in pubblicazione). Dal punto di vista tecnico è certificato come: esperto di epublishing Amazon Kindle, esperto di newsstand application design Apple-iTunes store ed esperto di sistemi WooCommerce per wordpress.

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