Industry 4.0: trend o tormentone?

Wikipedia dà una definizione molto netta di Industry 4.0 o, più “pomposamente”, la quarta rivoluzione industriale: un trend del mondo dell’automazione applicata alla manifattura. Questo termine nasce da una strategia del Governo tedesco riguardo il settore high-tech ed atta a promuovere la “computerizzazione” della manifattura. Nello specifico questo trend propone il concetto di “smart factory”, una fabbrica intelligente i cui macchinari, grazie al cloud computing e a tecnologie Internet of Things, presentano un elevato grado di autonomia e sono in grado di comunicare tra loro e con gli umani. Per aiutare la nostra immaginazione, pensiamo ad un’applicazione in ambito industriale di ciò che stiamo osservando svilupparsi da alcuni anni attorno alla tecnologia per la guida autonoma nell’ambito automobilistico: il macchinario registra attraverso sensori la realtà che lo circonda e via cloud, grazie a intelligenza artificiale o comunque elevate capacità di calcolo, riesce a prendere decisioni in autonomia per svolgere il suo compito (banalmente possiamo pensare a settaggio, configurazione, auto-diagnosi), scomodando il meno possibile l’operatore umano. Giusto un gradino sotto J.A.R.V.I.S. di Iron Man insomma.

Nella stessa pagina però Wikipedia, alla voce “significato”, riporta, rimandando a un bell’articolo del magazine Slate , che l’uso di questo termine è molto criticato dalla comunità tech in quanto sostanzialmente non significa nulla (ohibò). In diversi momenti storici, l’entusiasmo per l’opportunità (quindi una mera visione) di alcune tecnologie ha fatto gridare gli stessi promotori all’ennesima rivoluzione industriale, e qui l’articolo dello Slate è spassoso, ricordando quanti annunci di quarta rivoluzione industriale sono stati fatti dal dopoguerra ad oggi, mentre i fatti poi hanno sempre provveduto a ridimensionarli.

Insomma, mentre le prime tre rivoluzioni possono essere supportate da fatti storicamente comprovati e risultati concreti, in questo caso stiamo parlando, fin dal termine stesso, di “promozione”, quindi di una possibile bolla come accaduto con la stampa 3D. Quindi, la prima cosa da fare per esaminare questo fenomeno è distinguere la narrazione entusiastica dei promotori dagli elementi concreti che abbiamo a disposizione.

Chi l’ha chiesta questa innovazione?

A costo di sembrare gufo e disfattista, una delle cose che mi aiuta a difendermi dalla narrazione è il chiedermi sempre da dove nasce un trend: è una richiesta del mercato e dei consumatori, quindi nasce dal basso, o è una proposta dei player e quindi è un tentativo di imporlo verticalmente e non si può sapere a priori come reagiranno mercato e fruitori? Nel nostro caso io propendo per la seconda, in quanto vedo i possibili fruitori (pensiamo ad esempio all’Italia e alla sua “ossatura economica” fondata in grandissima parte dalla piccola e media impresa) già in affanno sulla digitalizzazione (e relative basi culturali) e sull’accesso ai più elementari servizi online.

Con l’industria 4.0 invece stiamo mettendo insieme dei trend come il cloud computing e l’IoT, che già presi singolarmente presentano criticità affatto banali, per elevarli ad un grado di complessità che non può che aumentarne esponenzialmente le problematiche. In parole povere, è affascinante avere una visione sugli sbocchi di una tecnologia, ma non è forse il caso di lavorare sulla robustezza delle fondamenta prima di costruirci sopra qualcosa?

La scorsa settimana, per dire, sono rimasto confuso da un articolo di Wired che sembrava mettere in guarda sull’estrema vulnerabilità informatica dei dispositivi IoT e poi sul finale virava in un endorsement all’industria 4.0. Il senso che ne ho estratto è stato del tipo: “Visto che l’internet of things è un colabrodo, costruiamoci sopra qualcosa di estremamente più complesso, fiduciosi che andrà tutto bene”. La sensazione che i player stiamo cercando disperatamente di dare un senso ai tormentoni cloud e IoT rimane ed è prepotente.

Manufacturing as a service

Esternalizzare il controllo della propria fabbrica, quanti imprenditori sono pienamente consapevoli di questo aspetto in un possibile scenario di industria 4.0?

Nell’attuale contesto di industria 3.0 (digitalizzazione ed automazione), un imprenditore può spendere risorse per formare il proprio personale affinché possa gestire il proprio parco macchine, o in ogni caso può rivolgersi ad una rosa piuttosto ampia di soggetti terzi per l’assistenza e la manutenzione; nell’industria 4.0 invece cosa dobbiamo aspettarci?

Il grado di complessità è elevato, il funzionamento autonomo delle macchine richiede una grandissima potenza di calcolo o addirittura un’intelligenza artificiale, come il caso di Olli, il servizio di mini-bus autonomi presentato di recente dalla Local Motors, che si appoggerà a Watson, l’intelligenza artificiale sviluppata da IBM. Può una piccola o media impresa permettersi una tecnologia del genere “indoor”? Certo che no, per quello il cloud è tra gli elementi fondanti dell’industria 4.0, perché alla fine l’imprenditore dovrà comprare la capacità di calcolo altrove, al pari di un servizio, consegnando di fatto le chiavi della propria fabbrica al provider. È una versione evoluta del vendor lock-in.

Ma allora perché tanto entusiasmo?

Se ci concentriamo ad osservare il panorama nazionale, la risposta sembra scontata: incentivi governativi a pioggia, ma forse in questo caso l’abbuffata nasconde un’opportunità (a volerla cogliere).

L’osservatorio di economia e finanza Lavoce.info ci ricorda che l’Italia ha il merito di distinguersi in quelle che vengono definite le tecnologie abilitanti per l’industria 4.0, quindi parliamo di soluzioni per la manifattura avanzata, realtà aumentata, cyber-security, integrazioni orizzontali e verticali lungo la catena del valore e tecnologie di simulazione, vantaggi che sono stati costruiti anche grazie alla capacità di ottenere risorse in sede europea. Da qui però l’osservatorio si fa cauto, invitando a non farsi prendere la mano e piuttosto cogliere l’occasione degli incentivi per colmare il ritardo delle nostre (piccole) imprese rispetto alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) e soprattutto favorire interventi per la diffusione della banda larga (chissà perché non si parla più di agenda digitale).

Questa mi sembra un’ottica decisamente più realistica e concreta: nonostante le difficoltà, una parte del tessuto industriale italiano ha continuato ad investire, in parte supportato dai contribuiti europei, per rimanere al passo, mentre i governi degli ultimi anni hanno esitato per quanto riguarda il rinnovamento delle infrastrutture.

Adesso, sotto il titolo se vogliamo improprio, di industria 4.0 possiamo cercare di recuperare un po’ del tempo perso oppure accodarci al trenino degli “entusiasti” e buttare sul mercato soluzioni difficilmente ricevibili (ed affidabili) dalla nostra industria. Cosa sceglieremo di fare?

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