Barbara Sgarzi: vita da social media journalist

barbara-in-alta-2-copiaHo avuto la grande fortuna di iniziare la carriera giornalistica in un quotidiano di carta con il caporedattore che disegnava l’ingombro del mio articolo su carta millimetrata e poi mi dava la lunghezza esatta di quello che dovevo scrivere“. Si presenta in così Barbara Sgarzi nella introduzione del suo ultimo libro Social media journalism. Barbara Sgarzi racconta di aver vissuto “sulla propria penna” la trasformazione in digitale del lavoro di giornalista: dal lancio di Yahoo! in Italia, ai primi esperimenti editoriali per tradurre i periodici dalla carta ai siti, fino ai social media che oggi sono diventati compagni irrinunciabili di un lavoro che non fa consumare più le scarpe ma le tastiere sì.

Nella introduzione si parla di “necessità di metodo” nel processo di “trasformazione digitale” della professione di giornalista. Quali gli elementi caratterizzanti del metodo? Come hai vissuto tu la digital transformation? 

Metodo significa innanzitutto calma – qualcosa che raramente, finora, ho visto usare. Calma nello studiare le piattaforme e gli strumenti esistenti per capire quali possono essere utili al nostro lavoro (e al lavoro della nostra testata) e usare solo quelli, pur conoscendo approfonditamente anche gli altri. Significa usare i tools in modo strategico, supportati da un’idea, da un obiettivo e da un piano editoriale coerente. Al contrario di ciò che fanno molti: aprire decine di account social perché “li hanno tutti” e poi usarli a caso, senza strategia, e magari lasciarli languire per mesi.

La digital transformation più che viverla l’ho fatta, nel senso che sono stata tra i primi giornalisti (parlo dell’Italia) a lavorare a progetti digitali; dopo l’esperienza di Yahoo!, nel 2000 ero a Mondadori Digital, a progettare i primi siti di magazine femminili. La digital transformation l’ho vissuta soprattutto nelle altre redazioni, come docente di giornalismo digitale. Nel 2009, quando ho iniziato, non era facile: c’era un muro contro muro tra “carta” e digitale. Negli anni, quasi tutti si sono convinti (anche obtorto collo…) della necessità di imparare a usare nuovi strumenti e seguire nuovi flussi di lavoro.

Come i social media aiutano il lavoro del giornalista e come invece possono complicarlo?

Lo aiutano in mille modi. Twitter è un’agenzia di stampa gratis, aperta 24/7. Basta costruire bene il network e l’informazione arriva, rapida e puntuale. Contattare e verificare fonti, paragonare e controllare foto, dati, nomi… Tutto è più veloce e con meno barriere di accesso. Quando ho iniziato a scrivere io, primi anni ’90, trovare il numero di telefono di un assessore, per fare un esempio banale, poteva richiedere ore. Ma servono anche a fare luce su notizie e avvenimenti dimenticati dall’informazione mainstream; basta avere il tempo e la voglia di fare ricerca. I social media lo complicano se diventano l’unico strumento di informazione, se viene data fiducia a fonti ambigue, se non si fanno i controlli necessari: in una parola, se non si applicano i principi della deontologia o, ancora prima, del buon senso che si dovrebbero usare nella professione giornalistica, indipendentemente dallo strumento.

Nella cassetta degli attrezzi di un giornalista che voglia usare i social media quali strumenti devono esserci? 

Personalmente, non posso prescindere da Twitter, soprattutto come fonte, da usare soprattutto tramite Tweetdeck. E poi gli strumenti base di fact-checking, a partire da TinEye o Google Images per controllare le foto. A seguire, tutti gli altri strumenti utili per il tipo di professionalità: un giornalista di moda, ad esempio, non può fare a meno di Instagram, per fare un esempio ovvio. 

Nell’ebook sono citati Moments su Twitter. Quanto e come potranno entrare nella cassetta degli attrezzi? E Snapchat?

Moments, arrivato nel frattempo in Italia, può avere interessanti implicazioni dal punto di vista della content curation, una competenza ormai fondamentale. Oggi non bisogna più solo creare contenuto, infatti, ma anche saperlo trovare, reimpacchettare e offrire sotto una forma diversa ai propri lettori.

Su Snapchat, osservo. L’esperimento di Discover, negli Usa, sta funzionando bene per portare le notizie a un pubblico più giovane, e offre anche un giusto mix di contenuti. Altre realtà mi sembra stiano usando Snapchat tanto per provare, perché è “di moda”, perché lo fanno i competitor, ma senza una strategia e un pensiero coerente dietro. Ricordiamoci che nasce come chat; pensarla come piattaforma di distribuzione dei contenuti, senza adattare i contenuti stessi allo strumento, è un po’ tirarla per i capelli. Detto questo, ogni sperimentazione è lecita e ben accetta: vediamo.

Quanto conta nel giornalismo oggi il debunking e quanto manca in generale a tuo avviso?

Farei innanzitutto una distinzione fra fact-checking, letteralmente controllo dei fatti, con il quale s’intende l’attività di investigare (un fatto, un contenuto, un avvenimento) per verificare i fatti prima di pubblicare una notizia, e debunking, dal verbo inglese to debunk, smontare, con il quale s’intende la pratica di mettere in dubbio o smentire, basandosi soprattutto su metodologie scientifiche, affermazioni false, esagerate o antiscientifiche.

Com’è ovvio, sono entrambe pratiche fondamentali che dovrebbero far parte del quotidiano di ogni giornalista. E, sottolineo, non solo da quando il giornalismo è digitale o “social”. Le bufale sono sempre esistite, la deontologia che impone il controllo e la verifica delle notizie prima della pubblicazione, anche. Oggi, con il moltiplicarsi delle fonti e la maggiore rapidità di diffusione delle news, diventano imprescindibili.

Social media e differenza di genere di cui si è parlato molto in questi giorni. Quanto pensi i social possano fare da catalizzatore rispetto alle differenze di genere e quanto invece potrebbero mitigare? 

Dipende da come vengono usati gli strumenti. Nel mondo di oggi, fortemente polarizzato, da una parte i social media offrono uno spazio libero e gratuito dove far sentire la propria voce e portare avanti le proprie istanze. Dall’altra, possono diventare il palcoscenico per insulti gratuiti e hate speech, anche sulla base della discriminazione di genere. Lo abbiamo visto con la presidente Boldrini, per citare un esempio illustre. Penso sia una questione di educazione all’uso; non era mai successo prima che chiunque potesse avere accesso a piattaforme di creazione e distribuzione di notizie e informazioni. Manca una formazione che, a partire dalle scuole, faccia comprendere la potenza degli strumenti che abbiamo a disposizione oggi e il modo corretto di utilizzarli.

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