Quale spesa pubblica vogliamo?

Il tema della spesa pubblica è uno degli snodi attorno ai quali si sviluppa una grande parte del dibattito politico e economico nel nostro paese. In particolare, viviamo un contrasto e un paradosso particolarmente critici:

  • Dobbiamo tagliare una spesa che risulta troppo spesso improduttiva e clientelare, riducendo il peso dello Stato, tagliando tasse e dando spazio alla società e al mercato, nella consapevolezza che ad oggi circa il 50% del PIL Italiano è gestito dal Pubblico.
  • Al tempo stesso, dobbiamo investire, sia nel pubblico che nel privato, per ammodernare le nostre infrastrutture, rendere più attrattivo il territorio, sostenere lo sviluppo delle imprese, tutelare i più deboli, investire in cultura, educazione e ricerca, preservare l’ambiente, far fronte alle emergenze internazionali…

In questo quadro così complesso e contraddittorio, la spesa in tecnologie e servizi digitali (ICT) gioca un ruolo non marginale in quanto costituisce una componente trasversale e abilitante del processo complessivo di sviluppo e ammodernamento del Paese, e incide profondamente, condizionandola, anche sulla spesa privata in tecnologie digitali.

È quindi vitale investire e investire bene in IT.

Se così fosse (e così è), possiamo permetterci una spesa pubblica in ICT inefficiente, lenta, “vecchia”?

Ovviamente no.

Il tema è quindi come definire il tipo di spesa pubblica che vogliamo e identificare di conseguenza i passaggi che devono essere previsti per innalzare qualità e impatto del procurement pubblico in tecnologie e servizi digitali.

Le criticità del procurement pubblico

Provo a riassumere gli snodi che ritengo particolarmente critici, anche al prezzo di qualche inevitabile semplificazione:

1. Mission: digitalizzare per far funzionare meglio la PA

Lo ripeto da tempo, ma ho la sensazione che questo argomento non interessi molto o, comunque, non “emozioni”: la digitalizzazione serve a far funzionare meglio la macchina pubblica e quindi ad aumentare l’attrattività e competitività del nostro Paese. Certamente, è anche importante offrire migliori “servizi” al cittadino, ma questi devono essere veramente servizi e non adempimenti richiesti da una macchina che funziona male. Faccio un esempio che credo emblematico.

Il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) non doveva essere digitalizzato, doveva essere abolito. Non perché non si debba controllare il regolare pagamento dei contributi (ovviamente!). Ma perché il DURC è il modo sbagliato di affrontare il problema e digitalizzarlo non fa che cristallizzare l’errore.

Il DURC esiste perché chi deve verificare il pagamento dei contributi di una impresa, non essendo in grado di farlo direttamente e automaticamente con l’INPS, ribalta di fatto l’onere sulla impresa stessa che deve farsi rilasciare il DURC dall’INPS per “passarlo” al soggetto che vuole effettuare il controllo. Per “innovare”, il DURC è stato digitalizzato, rendendolo disponibile come PDF via un sito web e PEC. Ma questa non è la vera soluzione e non è vera innovazione.

La vera soluzione (questa si innovativa) prevede che il sistema informatico di chi deve verificare la regolarità possa comunicare direttamente con il sistema informatico di INPS per avere “in automatico” una semplice risposta: “ok” o “not ok”. Il dialogo diretto tra i sistemi informatici rende inutile il DURC e elimina un onere al cittadino/impresa. Questo dialogo diretto che bypassa il controllato è molto più efficiente che fornire un mirabolante “servizio digitale” per completare una azione (recuperare il DURC) che in realtà è inutile. La richiesta del DURC è uno dei tanti oneri (altro che servizio!) che contribuisce ad appesantire il lavoro dell’amministrazione pubblica e a farla percepire da cittadini e imprese come un freno e un ostacolo all’attività del Paese.

Purtroppo, politicamente i servizi al cittadino sono più spendibili e “visualizzabili” della reingegnerizzazione e del ripensamento dei backend e degli uffici pubblici. Pertanto, se verso l’esterno è necessario in un qualche modo “vendere” la digitalizzazione come ripensamento dell’interazione tra Pubblico e società civile, non si perda di vista che il cuore del problema è la radicale rivisitazione dei processi e dell’organizzazione della macchina amministrativa, passaggio essenziale per ottenere l’impatto auspicato sulla società civile.

2. La qualità della spesa

Come si spendono le risorse pubbliche? Non basta promuovere una spesa qualunque essa sia pur di sostenere il mercato dell’offerta ICT. Come si coinvolgono i privati sia come fornitori sia come partner?

È un tema delicatissimo e strategico, anche perché non è vero che la spesa ICT sia bassa. Certamente essa deve essere incrementata per rispondere alle sfide che dobbiamo affrontare. Ma è vitale anche prestare attenzione a come oggi spendiamo le risorse già disponibili.

Tanto per fare qualche esempio, per Italia Login il piano Crescita Digitale prevede un budget di 350 milioni di Euro; il bando appena pubblicato per il sistema informativo dell’Agricoltura prevede un budget di 555 milioni di Euro. Solo queste due voci fanno quasi un miliardo di spesa. Se pensiamo ai bandi per il cloud computing gestiti da CONSIP arriviamo ad alcuni miliardi di Euro.

E sono pochi esempi considerati senza aver fatto una ricerca sistematica.

Ancor più importante — ribadisco — gli investimenti in tecnologie hanno senso solo in presenza di un ripensamento radicale dei processi e dell’organizzazione dell’amministrazione. Digitalizzare l’esistente paradossalmente può far aumentare i costi e non è detto migliori la qualità del servizio.

3. Governance e strategia

Un emendamento alla Legge di Stabilità stabilisce che i bandi di CONSIP debbano essere allineati alle linee guida stabilite da AGID. È un emendamento che stabilisce un concetto fin ovvio. Eppure fino ad oggi non era così. CONSIP non era formalmente impegnata a seguire le linee guida di AGID.

Sorgono quindi spontanee alcune domande:

  • Chi ha fatto e fa le strategie IT?
  • Le centrali e gli uffici acquisti?
  • Come abbiamo speso e spendiamo i soldi?
  • Come spingiamo l’innovazione?
  • Perché si è arrivati in una situazione che va contro qualunque logica?

Questa situazione non nasce dal caso o dalla volontà di questo o quel dirigente. È il frutto di un atteggiamento culturale che ha dominato — e domina — la politica (e la società) italiana negli ultimi 15 anni.

I prodotti e i servizi ICT non sono stati considerati un investimento strategico, ma una commodity — una “spesa” — e come tale da ridurre il più possibile. Il successo del procurement si misurerebbe quindi attraverso il risparmio nell’aggiudicazione delle gare e nell’assegnazione dei contratti.

Non ci si pone il problema di quali sia l’impatto dell’ICT. Né ci si preoccupa del Total Cost a valle dell’aggiudicazione. Ci si bea del fatto che “abbiamo risparmiato nella scelta del fornitore in sede di gara”, magari con ribassi innaturali, improponibili, e incompatibili con i costi (reali) per la fornitura dei servizi aggiudicati.

L’effetto finale è un mercato depresso, salari largamente sotto la media europea, realizzazioni spesso di qualità medio-bassa, costi che lievitano in fase esecutiva.

Questo approccio culturale limitato e miope ha fatto sì che negli anni scorsi non ci si sia preoccupati di come le centrali acquisti dovessero impostare le procedure di procurement: l’importante è che “risparmiassero”. Per di più, una distorta visione del federalismo ha portato ad un’anarchia realizzativa nella quale Regioni, enti locali e strutture centrali hanno proceduto in ordine sparso, moltiplicando iniziative e realizzazioni duplicate, incoerenti e non integrate.

La riforma Costituzionale bocciata nel referendum prevedeva anche la centralizzazione della regia e delle strategie in tema di digitalizzazione. Indipendentemente dall’esito del referendum, è vitale che nel settore del procurement dell’ICT si effettui in ogni caso un cambio di passo in questa direzione.

4. Una spesa che cambia

Indubbiamente una razionalizzazione della spesa può risultare sul breve periodo traumatica per il mondo dell’offerta ICT. Una razionalizzazione del procurement razionale porterebbe in diversi casi ad una diminuzione della spesa e quindi ad una contrazione del mercato.

Per esempio, il progetto ANPR punta a sostituire le oltre 8.000 anagrafi gestite dai singoli comuni con un archivio centralizzato. Soluzioni di questo tipo, in combinazione con l’utilizzo del cloud computing e di infrastrutture comuni condivise come SPID, indubbiamente razionalizzano la spesa e, conseguentemente, riducono il mercato a disposizione delle imprese ICT.

Questi cambiamenti sono non solo razionalmente e corretti dal punto di vista ingegneristico, ma anche eticamente necessari: è compito dello Stato e del Pubblico utilizzare al meglio le risorse che vengono raccolte attraverso la fiscalità. Peraltro, le risorse che si liberano possono e devono essere utilizzare per quegli investimenti in servizi innovativi da tutti evocati e per i quali si dice “manchino le risorse”.

Il punto quindi non è tagliare la spesa alla cieca, ma razionalizzarla e anzi rilanciarla per promuovere sul serio l’innovazione. Indubbiamente, tutto questo può accadere se e solo se sia la domanda che l’offerta ICT fanno un salto di qualità e maturità.

Per esempio, due progetti importanti come Italia Login e SPID devono essere “riletti” in modo lungimirante.

I problemi di SPID non sono tecnici, ma di vision:

  • SPID è un servizio pubblico. Non ha senso pensare che lo “paghino” i privati secondo business model che non esistono e non si intravedono all’orizzonte.
  • SPID è stato sovraccaricato di aspettative che non si realizzeranno. SPID è un servizio utile, ma ancillare. Sarebbe il caso di ristabilirne ruolo e valenza nello scenario complessivo dell’Agenda Digitale del Paese.
  • SPID deve servire soprattutto per accedere ai servizi privati di uso più comune da parte dei cittadini: non interagiamo tutti i giorni con le amministrazioni, ma — per esempio — tutti i giorni compriamo biglietti per mezzi pubblici o acquistiamo online o tramite servizi bancari.

Italia Login è l’interfaccia delle amministrazioni del Paese. Però perché questo progetto possa essere veramente una leva di sviluppo devono essere chiari alcuni capisaldi:

  • Non ha senso si parli di un unico portale secondo esperienze del passato che non hanno funzionato.
  • Ha senso che Italia Login sia innanzi tutto un insieme di linee guida per lo sviluppo di tutti i servizio i front-end (app e siti). Italia Login è quindi una costellazione di applicazioni e siti web.
  • Italia Login può essere anche uno dei sistemi di front-end (una app + relativo sito web) che offre alcuni servizi chiave e core.
  • Le app e i servizi di Italia Login devono poter essere sviluppati anche (e soprattutto) dai privati.

5. Come comprare meglio

Come possono le amministrazioni pubbliche “comprare meglio”? Credo vadano affrontati alcuni passaggi chiave.

  1. Serve una governance non ambigua e fortemente incardinata in una volontà politica di lungo periodo, possibilmente indipendente dal colore della maggioranza politica del momento.
  2. Servono vision, architettura e modello di riferimento condiviso.
  3. Serve saper progettare sia questo quadro complessivo che le specifiche soluzioni.
  4. Serve intervenire sul Codice degli Appalti, sulle stazioni appaltanti e sulle centrali acquisti per innovare in modo radicale i processi e i meccanismi di procurement pubblici.
  5. È necessario innovare i modelli di procurement anche per tenere conto delle nuove forme di fornitura dei prodotti e servizi IT. Due esempi emblematici:
  6. Serve abilitare il passaggio dall’acquisto di prodotti in conto capitale a servizi in spesa corrente (vedi cloud).
  7. Servono modelli di acquisto a consumo scalabile per il cloud e le API.

6. Lotta alla corruzione e dinamiche di un procurement moderno

I meccanismi e le regole del procurement pubblico sono fortemente orientate a combattere tutte le forme di corruzione e di scarsa trasparenza. Ciò non è solo legittimo, ma anche doveroso. Tuttavia, i meccanismi che sono stati previsti sono adatti per opere pubbliche di tipo tradizionale (ponti, strade, …) e molto meno per il mondo dell’ICT. Inoltre, l’aver ridotto tutti i margini di autonomia dei dirigenti e delle amministrazioni ha di fatto congelato e reso molto complesso (e soprattuto lento) l’accesso a qualunque fonte di innovazione.

  1. Che succede se un centro di ricerca ha una buona idea e vuole proporla ad una PA? Perché dovrebbe proporla con il rischio che il suo sviluppo venga assegnato tramite gara ad altri (magari al massimo ribasso) o a qualche mega-consorzio vincitore di bandi a livello nazionale?
  2. Che senso ha prevedere solo tre sottocontraenti selezionati al momento della sottomissione della proposta? Se nel corso dei lavori si volesse coinvolgere una società innovativa o una startup?
  3. Perché rendere sostanzialmente impossibile qualunque contatto diretto tra amministrazioni pubbliche e altre strutture pubbliche come le università?
  4. Perché gli organismi di ricerca — che già sono considerati in modo differenziato dal punto di vista fiscale (si pensi alle regole sul credito di imposta per ricerca e innovazione) — non possono interagire in modo più diretto con le amministrazioni pubbliche?

Quali sono quindi le conseguenze

Gli snodi che devono essere affrontati sono molteplici, complessi e interallacciati. Per affrontarli serve chiarezza di vision e forte volontà politica. Altrimenti, nonostante la buona volontà, da questa situazione di stallo — o comunque di insufficiente dinamica — non ci muoveremo.

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