Privacy in Rete: è utopia?

“Io? Non ho niente da nascondere!”. Non è forse questa una delle reazioni più comuni di chi, informato sugli effetti del tracciamento che ciascuno a volte inconsapevolmente subisce in rete, pensa di non poter fare nulla per evitarlo?

Se non ci curiamo della privacy, non meritiamo di averla; ma quando questa sarà persa, sarà persa per sempre”. Così commenta l’avvocato esperto di diritto delle nuove tecnologie Carlo Piana. “Sono molto preoccupato che questo pensiero non smuova le coscienze, soprattutto dei più giovani: significa che non esiste (più?) un concetto innato di privacy e che se non lo insegniamo sin da subito, perderemo una generazione. E non sto parlando di normativa sui dati personali, non sto parlando di regolamento, consenso,  cookie law, informativa: questa è solo burocrazia, sovrastruttura, spesso inutile. Sto parlando del concetto stesso di privacy e del valore che se ne dà, al di là delle norme in atto oggi, domani o dopodomani”.

Probabilmente per le stesse preoccupazioni rispetto alla scarsa attenzione alla cura dei propri dati, la comunità Mozilla India e altre comunità nazionali, tra le quali quella italiana, hanno dato vita al Privacy month, ovvero un mese di sensibilizzazione sui temi della privacy in Rete che si concluderà il 28 gennaio con il Data Privacy Day.

La campagna – spiega Daniele Scasciafratte, membro della community italiana Mozilla – si svolge in parte on line attraverso la condivisione sulle nostre pagine social di facili suggerimenti giornalieri da attuare per difendere i propri dati e in parte attraverso eventi a tema organizzati in diverse città del mondo”.

Ma perché la necessità di parlare di privacy?

“Questa è una battaglia tornata in auge con l’avvento della rete e la sua moltitudine di app” – afferma la giornalista Agnese Cecchini. “L’utente medio si trova a gestire una scelta binaria, come la vita digitale: acconsenti a farmi avere tutti i dati che ti chiedo, altrimenti il servizio non funziona bene. Questa mi sembra la dicotomia più coercitiva degli ultimi anni. Non scommetterei sulla reale necessità di garantire il completo accesso ai dati per il funzionamento della navigazione di mio interesse e, anzi, proprio su questa primaria mancanza di fiducia si fonda lo scoglio della privacy sul web. Il fatto che le domande siano standard , sempre le stesse mentre le app hanno funzioni diverse insospettisce ancora di più. Si potrebbe permettere di scegliere in modo fluido cosa far vedere e cosa no dei dati, magari in base alla funzione che si sta usando al momento e poi basta. Se è già così non è chiaro, e allora mi chiedo: perché uno strumento democratico come il web non può essere chiaro? Risposta: perché non è davvero democratico. Insomma siamo in piena guerra iniqua, come quella fatta dagli aggiornamenti dei nostri impalpabili software che ingrassano più velocemente di noi durante i pranzi di Natale…”.

Però uno spiraglio di luce rispetto all’impotenza che spesso si avverte nel momento in cui ci si trova “costretti”ad accettare condizioni imposte da app o da social di cui non possiamo più fare a meno forse c’è. E sta tutta nella consapevolezza del poter usare strumenti che la stessa tecnologia mette a disposizione che aiutano quanto meno a non condividere senza pensare. In questa direzione va sicuramente la campagna Mozilla e il messaggio “Privacy depends on encryption. Learn more about why it’s essential and worth protecting”.

Problema culturale quindi?

Di questo parere sono Paolo Giardini e Antonio Sagliocca, entrambi esperti di sicurezza informatica. “Se non si è toccati nel portafoglio – afferma Giardini – non è una cosa che interessa aziende e utenti. Manca la consapevolezza del diritto di ciascuno a non essere controllati, spiati, catalogati. Molte aziende, che sarebbero obbligate per legge, se anche  mettono in atto misure di sicurezza, queste sono il minimo indispensabile;  ma ci sono anche realtà che non fanno nulla “perché tanto non ci sono controlli”. Tipicamente gli utenti dei social network sono quelli più sottoposti a profilazione ma pochissimi hanno letto le condizioni di utilizzo e le policy privacy prima di iscriversi. Ed ancora meno hanno impostato il proprio profilo con un livello di protezione almeno sufficiente. Il mio consiglio? Controllate il vostro profilo. A  chi avete consentito di leggere (e anche scrivere) sulla vostra pagina facebook? Parliamo di app. Credete siano gratis? Nemmeno per idea. Se è gratis, state pagando con le vostre informazioni personali. Se non ci credete, leggete le policy d’uso delle app che avete installato”.

La conoscenza come antidoto o forme di controllo non volute anche per Antonio Sagliocca: “Se Riveli al vento i tuoi segreti, non devi poi rimproverare al vento di rivelarli agli alberi” diceva Kahlil Gibran, poeta, pittore e filosofo Libanese vissuto tra il 1800 e il 1900. Il concetto di questa frase è ancora attualissimo al giorno d’oggi, quando, senza pensarci a sufficienza, diffondiamo in internet sui vari Social, Blog e siti vari, informazioni che ci appartengono come se stessimo scrivendole su un nostro diario personale. Chiunque potrà così reperire parecchie informazioni sul nostro conto, che una volta aggregate tra loro, costituiranno un vero e proprio profilo di noi e metteranno a rischio la nostra privacy e la nostra sicurezza in rete. Manca la consapevolezza che una volta consegnate alla “Rete”, ne abbiamo perso il controllo. Altro problema è che “noi esseri umani dimentichiamo, la Rete no” e quindi quello che mettiamo potrebbe restarci per sempre”.

Sul cosa fare per tutelarsi arriva qualche consiglio veloce: “Pensiamo molto bene prima di pubblicare in rete qualcosa che riguarda noi o qualcuno della nostra famiglia (soprattutto i bambini), attenzione ai molti profili fake, non accettiamo contatti di chi non conosciamo personalmente e non effettuiamo ricerche in internet quando siamo loggati sui motori di ricerca. Quando possibile, inoltre, navighiamo in modo anonimo”.

A questo punto della lettura, ci sarà qualcuno che reclama il diritto a essere tutelato, a sentirsi garantito per legge perché “non è giusto che altri possano avere così tanti dati (e informazioni) su di me”.

Quali sono allora le tutele che la Legge garantisce?

Nella nostra contemporaneità – afferma Fernanda Faini, presidente del Circolo Giuristi Telematici – le cui keywords sono condivisione, semplicità e immediatezza, la nostra identità e i dati personali diventano vulnerabili, incontrano pericoli inediti, potendo frammentarsi e decontestualizzarsi, essere violati e danneggiati. Siamo al sicuro quindi nel mare magnum della rete? Beh, può sembrare curioso, ma molto dipende proprio da noi. Dobbiamo conoscere le “regole del gioco” e quali sono i nostri diritti. La normativa (d.lgs. 196/2003) permette di conoscere e di esprimersi in merito al trattamento dei nostri dati grazie a due strumenti fondamentali: l’informativa (art. 13) e il consenso (art. 23). Non solo, ma all’interessato (e quindi a ognuno di noi) sono riconosciuti determinati diritti (art. 7), come ottenere l’aggiornamento e la cancellazione dei dati, opporsi al trattamento degli stessi. Questi strumenti naturalmente “vivono” nel contesto della rete e quindi si traducono nella necessità di leggere la policy e le condizioni d’uso del social, della app o della piattaforma che stiamo utilizzando per capire come il fornitore può usare i dati che noi consapevolmente gli forniamo e quindi, di conseguenza, quali sia il caso fornire o meno. Inoltre è opportuno regolare le impostazioni della privacy e controllare nel corso del tempo le modifiche introdotte (unilateralmente) dal fornitore. Occorre prudenza anche nell’utilizzo degli strumenti, ad esempio quando pubblichiamo qualcosa che ci riguarda, limitare la disponibilità dei dati e usare con estrema accortezza e parsimonia la geolocalizzazione. Oltre a noi stessi, accortezza anche nel trattamento dei dati altrui, per non violare norme e diritti che gli altri hanno al pari nostro. Al riguardo, suggerisco di leggere i preziosi opuscoli del Garante per la protezione dei dati personali, che ci indicano una serie di “buone pratiche” per non rimanere “intrappolati” nella rete. Non solo, possiamo anche proteggerci segnalando al fornitore del servizio, al Garante o all’autorità giudiziaria competente eventuali violazioni che ci riguardano. Nell’era dei big data i rischi nella rete sicuramente non mancano e neppure le problematiche inerenti la protezione dei dati personali: è il momento di iniziare a conoscere meglio le regole e a incidere sugli aspetti che possiamo controllare”.

Privacy utopia?

Il cerchio sembra chiudersi: senza conoscenza non c’è privacy. Senza conoscenza non c’è libertà. “Sul tema privacy – afferma il direttore di Tech Economy Stefano Epifaniil problema ha diverse dimensioni. Tendiamo a considerare la privacy come un concetto che ha un valore assoluto ed immutabile. Così non è. Il concetto di privacy – o meglio di “sfera del privato” – è quanto mai variabile nel tempo. È figlio del tempo in cui si vive. Nel 1700 i palazzi non avevano corridoi, e le persone passavano da una stanza all’altra senza preoccuparsi di cosa stessero facendo gli occupanti. Nobili o plebei, la privacy era semplicemente sconosciuta. Poi la nostra cultura ha assunto la forma attuale che la ha portata a vedere la privacy con un valore nuovo. Ma anche la nostra cultura sta cambiando. Qualsiasi approccio che tenda semplicemente a “conservare” il concetto di privacy immutabile, in maniera avulsa dal contesto sociale, rischierebbe di dare vita ad una vera e propria battaglia di retroguardia. Internet, la rete, i social media hanno già cambiato il modo in cui guardiamo alla privacy, ed il suo valore. Il problema vero, semmai, è di consapevolezza. Noi dovremmo preservare quel “diritto di essere lasciarti soli” (“the right to be let alone” recita l’Harward law review nel 1890) senza mai scordare che il vero problema non è tanto il fatto che una società ritenga giusto o sbagliato “condividere” qualcosa, quanto piuttosto il fatto che chi non vuole farlo possa seguire la volontà senza vivere processi di esclusione, o ancora peggio senza che questa volontà venga meno senza che l’utente sia informato. Oggi più che perdere la privacy stiamo perdendo la consapevolezza di come i nostri dati vengono usati in rete dagli operatori ai quali più o meno consapevolmente li diamo. E questo è il problema più grande che dobbiamo gestire“.

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