La necessità di essere un’azienda efficace nella comunicazione digitale e nell’utilizzo dei nuovi strumenti ormai è sentita dalle organizzazioni di tutte le dimensioni e di ogni settore.
Questa visione corretta e importante però spesso cozza con il non coinvolgimento allargato dei dipendenti in tutto quello che risulta essere “digital”, in quanto appannaggio delle funzioni dedicate.
Employee advocacy, questa sconosciuta?
Nel loro essere estremamente profetici, gli autori del Cluetrain Manifesto avevano pensato una tesi (la numero 86) anche per questo che recita: Quando non siamo occupati a fare il vostro “mercato target”, molti di noi sono le vostre persone. Preferiamo chiacchierare online con gli amici che guardare l’orologio. Questo farebbe conoscere il vostro nome molto di più del vostro sito internet da un milione di dollari. Ma siete voi a dirci che è la Divisione Marketing che deve parlare al mercato.
Ci sono almeno tre motivi che rendono particolarmente potente questo postulato nel contesto contemporaneo:
- L’effetto rete con i sei (o meno?) gradi di separazione oggi è incredibilmente potente e veloce grazie alla tecnologia dei social network e del mobile.
- La comunicazione tra pari è molto più efficace che quella one to many e, più in generale, l’interazione personale con dei soggetti che si conoscono, fosse anche solo per rapporto cliente-venditore o altre situazioni simili, è genericamente ritenuta più credibile dell’advertising.
- Nelle community online interne ed esterne vale la legge 1-9-90 e questo significa che avere più persone coinvolte con le relative reti interne permette di raggiungere e attivare i nodi più remoti dell’organizzazione.
A questo possiamo aggiungere, in chiave contraria, che il commento o l’azione negativa del proprio dipendente ha gli stessi effetti con esiti opposti. E non basta il controllo per arginare totalmente questi problemi.
Ma come si fa ad attivare allora dei processi virtuosi?
La comunicazione interna come fattore chiave della digital transformation
Prima di tutto serve dare visibilità alla trasformazione. Mi spiego: bisogna ottenere del committment dal vertice per dare inizio a dei progetti, piccoli o grandi che siano, poi però bisogna riuscire a rendere rilevante e noto quello che si sta facendo per rafforzarlo, per portare a bordo nuove persone e ottenere nuovi fondi e ulteriore spinta.
Questa parte passa per una comunicazione interna efficace che è ben motivata da diverse ragioni che ho trattato in dettaglio qui e ora riepilogo solo come brevi punti:
- Le aziende ormai sono piene di millennials che si aspettano modelli di lavoro più aperti e anche più coinvolgenti
- Ci troviamo in un ecosistema molto complesso: non ci sono vie di uscite da questo e termini come volatilità, incertezza, complessità e ambiguità sono diventate ordinarie nella letteratura manageriale e nella vita lavorativa di tutti i giorni perché gestire questo contesto è un fatto di sopravvivenza. E serve comunicare per collaborare.
- La tecnologia (e la comunicazione che vi viene veicolata sopra) si diffonde nell’organizzazione anche senza che l’organizzazione la spinga e la governi
- Le nuove tecnologie rafforzano i legami deboli e nel momento in cui il clima organizzativo e gli strumenti tecnologici permettono l’accesso alle informazioni e alle conoscenze da parte di molteplici persone, anche senza un’interazione personale approfondita, la conoscenza e il committment viaggiano meglio nell’organizzazione.
- Grazie a una comunicazione interna studiata e continuativa, si ottiene quel livello di empowerment e appartenenza che di solito un anello passivo di una catena non ha, e il conseguente contributo al miglioramento che spesso solo chi fa le cose sul campo e conosce la realtà aziendale può dare davvero.
E dopo l’engagement e la comunicazione? KPI e incentivi
In tutte le trasformazioni bisogna darsi degli obiettivi e misurare i risultati.
Questo genere di processo non fa differenza.
In primo luogo bisogna individuare delle metriche sull’efficacia e anche sul tipo di azioni che ci aspettiamo, per costruire i percorsi corretti da indurre e verificare l’effettivo risultato.
Non esistono ricette univoche ma il mio consiglio è di essere molto concreti, graduali e di lavorare continuamente al miglioramento sulla base dei feeedback.
Inoltre, anche i più volenterosi dipendenti che si facciano carico di portare avanti queste iniziative non possono essere lasciati soli, pena il loro scoraggiamento o peggio la disincentivazione da parte di altre componenti aziendali.
Delle gratificazioni, materiali o anche solo “morali” (come a titolo di puro esempio il ruolo di ambassador di certe iniziative) sono quindi fondamentali per incentivare le persone ad agire nel tempo.
Infine, molto importanti sono le policy di comportamento (necessarie in ogni caso oggi grazie all’accesso diffuso ai social media) che inquadrino in una cornice autorizzata i più entusiasti e stabiliscano dei meccanismi di sanzione per chi opera scorrettamente, anche dopo avere ricevuto le corrette informazioni del caso.
Il mercato di questo genere di soluzioni che valorizzano il ruolo dei dipendenti è già piuttosto fiorente in termini di consulenti e soluzioni software ma è solo nell’adozione profonda nella cultura aziendale che risiede la chiave del successo.
Una bella sfida, non c’è che dire.
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