Giorni fa ho partecipato a una tavola rotonda a porte chiuse sui temi di Industria 4.0. Si parlava, tra le altre cose, di ridare valore agli istituti tecnici che sono vitali per ricreare o comunque rafforzare il tessuto di competenze tecniche necessarie per affrontare complesse tematiche come quelle legate, per l’appunto, a Industria 4.0.
Verissimo. Ma temo che la realtà abbia ancora una volta scavalcato in velocità le nostre riflessioni.
Proprio pochi giorni ho letto un articolo sul New York Times che mi ha fatto riflettere. Ne riporto alcuni passaggi tra i più significativi (il grassetto è mio):
When the German engineering company Siemens Energy opened a gas turbine production plant in Charlotte, N.C., some 10,000 people showed up at a job fair for 800 positions. But fewer than 15 percent of the applicants were able to pass a reading, writing and math screening test geared toward a ninth-grade education.
“In our factories, there’s a computer about every 20 or 30 feet,” said Eric Spiegel, who recently retired as president and chief executive of Siemens U.S.A. “People on the plant floor need to be much more skilled than they were in the past. There are no jobs for high school graduates at Siemens today.”
E ancora:
These are the types of good-paying jobs that President Trump, blaming trade deals for the decline in manufacturing, has promised to bring back to working-class communities. But according to a study by Ball State University, nearly nine in 10 jobs that disappeared since 2000 were lost to automation in the decades-long march to an information-driven economy, not to workers in other countries.
Even if those jobs returned, a high school diploma is simply no longer good enough to fill them. Yet rarely discussed in the political debate over lost jobs are the academic skills needed for today’s factory-floor positions, and the pathways through education that lead to them.
Al di là delle considerazioni politiche sulla Presidenza USA che ovviamente esulano dal contesto di questa riflessione, è impressionante notare l’accelerazione degli eventi: se noi stiamo pensando a come valorizzare gli istituti tecnici, negli USA una azienda leader paventa il fatto che non ci saranno più lavori per diplomati o che comunque la gran parte dell’occupazione richiederà formazione di tipo universitario.
È questo solo un caso isolato o forse rappresenta una tendenza più diffusa come il giornalista sembra indicare? Non è forse necessario accelerare le nostre riflessioni e di conseguenza anche l’insieme delle azioni da mettere in campo per cercare di mantenere il nostro Paese allineato ai trend economici e industriali internazionali?
1. L’effetto pendolo
Prima di discutere nello specifico i temi dello sviluppo del capitale umano, è opportuno e anzi necessario affrontare un discorso di merito. In questi anni abbiamo assistito ad una semplificazione del dibattito economico, sociale e politico e, contemporaneamente all’emergere di problemi complessi che richiedono risposte urgenti e forti. Tutto ciò ha indotto una polarizzazione molto forte sia nella articolazione delle analisi che nella formulazione delle proposte.
Siamo spesso passati da un estremo al suo opposto, come un pendolo che continua a oscillare senza posa, incapace di arrestarsi in un ragionevole punto di equilibrio.
Per esempio, siamo passati da una formazione spesso qualificata come “nozionistica”, incentrata sulla memorizzazione di dati, fatti e formule, ad una crescente e quasi totalizzante enfasi su soft skills, lavoro di gruppo e conoscenze trasversali, come se non servissero più le competenze specifiche e qualcuno che, alla fine, sappia fare un lavoro spesso molto complesso. Viviamo nell’illusione che la collaborazione di gruppo sia sufficiente (e anzi desiderabile) per affrontare i complessi problemi della nostra economia. Capiterà mai che si possa inserire IoT in un macchinario se non c’è un esperto di IoT, anzi, diversi esperti delle diverse materie (elettronica, firmware, short-range communication, low-power, …)?
Certamente servono persone che sappiano comunicare e lavorare in gruppo. Ma il gruppo deve essere l’unione di forti, non di incompetenti!
Allo stesso tempo, abbiamo giovani sempre più abituati a studiare e a verificare il proprio livello di apprendimento attraverso paradigmi molto simili a quelli dei quiz per la patente: domande standard alle quali rispondere scegliendo una alternativa in un set predefinito. È l’effetto della standardizzazione della valutazione o della mania per i confronti. Sempre meno studenti sanno ragionare ed affrontare problemi complessi.
Non è certo questo quel che serve per affrontare i problemi spesso nuovi e comunque molto articolati che troviamo nelle nostre aziende. Sicuramente abbiamo bisogno di valutare e confrontare la qualità complessiva del sistema educativo anche da un punto di vista quantitativo. Certamente dobbiamo offrire ai nostri giovani chiari obiettivi formativi e trasparenza dei modelli e processi di valutazione. Ma noi dobbiamo essere certi di formare persone che sappiano ragionare, strutturare e affrontare problemi complessi e spesso nuovi, che sappiano valutare in modo intelligente e non schematico i tradeoff di progetto e la qualità complessiva di una soluzione.
In generale, è necessario ripensare in modo organico ed equilibrato il modo secondo il quale affrontiamo il problema dello sviluppo del capitale umano e dell’educazione.
2. Gli snodi essenziali
Quali sono i principali snodi che dobbiamo affrontare per dare risposte credibili ai problemi discussi? Provo a proporne alcuni che reputo personalmente cruciali.
I basic skills
Il tema è grave e complesso. Molte indagini e statistiche confermano un fenomeno particolarmente critico, specialmente nel nostro paese. Abbiamo una percentuale molto elevata di analfabeti funzionali, persone che non sono in grado di leggere, scrivere e far di conto. Non ha senso parlare di nuove competenze e nuovi mestieri, di età della conoscenza, se gran parte della popolazione si trova in questo stato. Dobbiamo intervenire in modo profondo e radicale per colmare ritardi e correggere storture e distorsioni che sono state negli anni introdotte, rimettendo al centro del percorso formativo alcuni punti essenziali che paiono essere scomparsi nella confusione di una finta “modernità”.
Saper studiare
Da insegnante, vedo sempre più spesso una tendenza a banalizzare il processo di studio. Spesso gli studenti vengono abituati a “studiare per il test”, imparando quasi a memoria risposte standard a domande standard. Sono sempre meno capaci di ragionare e di definire correttamente in primo luogo la struttura del problema e, di conseguenza, la strategia per risolverlo.
Un sintomo di questo fenomeno è il continuo spostarsi dalla lettura e dallo studio dei libri all’utilizzo delle slides, moderno “bigino” che dovrebbe nell’illusione di molti “dire in modo sintetico quel che c’è da sapere per passare l’esame”.
Dobbiamo affrontare uno snodo importantissimo: recuperare la cultura dello studio, un metodo maturo di acquisizione e sviluppo non solo delle conoscenze, ma anche della capacità di analisi e strutturazione di problemi complessi e per loro natura non standardizzati. Se fare Industria 4.0 — e in generale innovazione — consistesse nel dare una risposta standard a problemi standard, tutti innoveremmo senza problemi e senza sforzo alcuno!
Imparare ad imparare
Gli studenti che si laureano oggi a 24 anni lavoreranno fino a 65, 70 anni. Questi giovani quindi termineranno la loro vita lavorativa verso il 2060. Quale saranno le conoscenze e competenze necessarie non nel 2060, ma, per fare un esempio, nel 2035, a quasi venti anni da oggi? Chi può saperlo?
Ha senso, come chiedono tanti imprenditori, che l’università e la scuola formino i giovani pensando solo e soltanto a quel che serve per accelerare il loro ingresso in azienda, puntando solo e soltanto agli skills operativi “del momento”?
Certamente, dobbiamo fare in modo che i giovani siano pronti ad entrare nel mondo del lavoro, essendo allineati e formati per affrontarne sfide e complessità.
Ma è proprio questo il punto: cosa serve oggi ad una azienda?
Prendiamo a mo’ di esempio l’informatica: serve che un giovane conosca benissimo l’ultimo linguaggio o tecnologia del cloud, o che sia in grado di studiare velocemente un nuovo linguaggio nel momento in cui divenisse disponibile? Serve che abbia la manualità per gestire un router, o che conosca i principi che permettono di imparare a gestire quel router o magari uno più moderno che uscirà nei prossimi due o tre anni?
Quali sono le competenze e conoscenze che devono essere acquisite in università? Quali è utile siano acquisite in quel periodo così importante della formazione della persona e quali sono recuperabili anche in seguito?
Noi dobbiamo preoccuparci che i giovani acquisiscano i principi, concetti, metodi che permettano loro di continuare ad imparare e non solo di usare domani mattina l’ultimo strumento di moda.
Devono imparare ad imparare, avendo un punto di partenza solido e fondante. Questa è la sfida più importante.
La formazione a “T”
Un quarto e importante tema riguarda al dicotomia specializzazione-multidisciplinarietà.
Come ricordavo in apertura, spesso vengono evocati e lodati i soft skills e la capacità di lavorare in gruppo, elementi essenziali per affrontare i complessi problemi multidisciplinari che i giovani e le imprese si trovano ad affrontare. Certamente sono tematiche importanti e non voglio in alcun modo suggerire che non debbano essere tenute in considerazione nello sviluppo di un moderno percorso formativo.
Ma il pendolo purtroppo si è spostato su questo estremo dimenticando sempre più l’altro.
Noi abbiamo bisogno di persone che abbiamo competenze forti e che sappiano nel tempo aggiornare queste competenze. E abbiamo bisogno di persone che sappiano dialogare, interagire e cooperare con portatori di altre competenze. Nella mia esperienza al Cefriel vedo che i team di maggiore successo sono quelli nei quali un bravo informatico, un bravo elettronico, un bravo designer, un bravo matematico sono tutti insieme “bravi” a collaborare. Ma sono innanzi tutti “bravi loro”, nella loro specializzazione e capacità.
Servono persone “a T”:
- una “gamba verticale forte” che rappresenta il loro profilo professionale e la loro caratteristica distintiva: per esempio, l’elettronico che sa progettare e costruire un alimentatore ottimizzato per IoT;
- una “asta orizzontale” che rappresenta la capacità di imparare continuamente e di lavorare con altri portatori di competenze, esperienze e conoscenze.
Stiamo formando le persone avendo in mente questa strategia? Ce ne sono di migliori? Cosa in realtà stiamo facendo oggi?
3. Qualche semplice considerazione finale
Non è certo un breve articolo che può affrontare e risolvere questioni così complesse. Ma il problema che noi viviamo in questo periodo convulso e alquanto superficiale è che di questi temi non si discute a sufficienza o lo si fa rincorrendo stereotipi o approcci di breve termine. Indubbiamente, non ci si può accontentare di delineare scenari di lungo termine: abbiamo bisogno di produrre un impatto anche ora, oggi, in questo tempo. Ma questo impatto deve essere pensato e declinato avendo in mente lo scenario finale verso il quale vogliamo convergere, e non solo la risposta emotiva o peggio demagogica alle pressioni dell’opinione pubblica o alle emergenze che la cronaca del paese ogni giorno ci propone.
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