La via italiana al digitale

Quando si parla di digitale, il nostro Paese vive più di altri una pericolosa estremizzazione. In questo come in molti altri casi siamo come un pendolo che tende sempre a oscillare tra due estremi senza mai trovare un punto di equilibrio ragionevole.

  • Da un lato ci sono gli entusiasti del digitale che prevedono e auspicano, in modo a volte massimalista, una trasformazione completa, profonda e pervasiva della nostra società grazie all’utilizzo di queste tecnologie. Ammetto di ricadere spesso in questa categoria.
  • Dall’altro ci sono quelli che, in modo più o meno consapevole, si oppongono a questa visione e contrastano le spinte che tendono ad una progressiva digitalizzazione del nostro mondo.

Questa seconda categoria è molto ampia. Il manager che si fa stampare i messaggi di posta elettronica, il legale che rifiuta di riconoscere il valore di una mail o di un documento digitale, il tassista che rifiuta Uber, la libreria che si sente vittima di Amazon, il piccolo negozio che scompare sotto i colpi della Grande Distribuzione prima e dell’e-commerce ora, sono solo alcuni dei tanti esempi che si potrebbero fare.

In generale, al di là di singoli casi più o meno estremi, è indubbio che i processi di digitalizzazione e di trasformazione della società per mezzo delle tecnologie digitali abbiano un impatto a volte duro e difficile da gestire.

Per esempio, è difficile accettare che luoghi di incontro e cultura come le librerie debbano scomparire perché tutto è oggi digitale. Così come è difficile accettare che molte professioni e lavori debbano essere “semplicemente” cancellati perché la digitalizzazione elimina intermediazioni e ruoli del passato; o che la standardizzazione dei prodotti e globalizzazione dei processi (resi possibili anche e soprattutto grazie alle tecnologie digitali) uccidano le produzioni locali e le tradizioni che ci caratterizzano.

Per molti versi, le trasformazioni indotte dal digitale sono un fatto ineludibile e positivo. Esse sono il più recente passaggio di una lunga serie di cambiamenti tecnologici che hanno rivoluzionato il mondo del lavoro e la società nel suo complesso. Tutto ciò ha accompagnato lo crescita dell’umanità e il miglioramento delle nostre condizioni di vita. Ma è anche vero che la potenza rivoluzionaria delle tecnologie digitali ha un impatto che pochi altri fenomeni hanno avuto nella Storia. Il mondo stesso del lavoro è oggi scosso alle fondamenta dalla preoccupazione che l’automazione e i robot possano eliminare il ruolo delle persone non solo nelle fabbriche, ma anche in tanti altri luoghi della nostra società.

Non basta quindi evocare, come spesso facciamo noi tecnologi, la distruzione creativa di Schumpeter o l’inevitabilità del cambiamento. Non basta aprire le braccia dicendo “è sempre successo così”.

Dobbiamo farci carico noi per primi dei problemi del cambiamento, capire come gestirlo e accompagnarlo, comprendere appieno le dimensioni dello scenario complessivo che si va delineando. Di certo non basta dire, come fanno alcuni, che il digitale “è la dimensione immateriale della nostra vita” o “l’interfaccia immateriale del materiale”. Per un libraio, Internet e il digitale sono quanto di più “materiale” e concreto si possa immaginare: trasforma e in molti casi stravolge la vita delle persone, oltre che i processi economici e produttivi.

Serve un’analisi e sintesi più profonda che vada alla radice delle questioni e trovi un nuovo punto di equilibrio, ripartendo dal senso che vogliamo dare al digitale e al suo rapporto con la nostra vita.

Il digitale da solo non soddisfa né può esaurire il senso della nostra esistenza. Per esempio, pur essendo un assiduo utilizzatore di ebook, mi sto accorgendo di quanto sia appagante leggere un libro su carta o sedere nel Red di Piazza Gae Aulenti a Milano. Non per nulla Amazon sta ricreando luoghi fisici dove riappropriarsi dell’esperienza di visita e acquisto. Non per nulla, Starbucks è luogo di incontro e lavoro prima ancora che bar o negozio di caffè.

E non si tratta solo di non perdere occasioni piacevoli di acquisto: non possiamo ignorare che la distruzione di tanti ruoli, luoghi e professioni è un danno alla cultura e alla vita sociale e non un simbolo di progresso. Tutto ciò è ancora più vero nella nostra Bella Terra. Come possiamo immaginare di “semplicemente” nascondere dietro una “interfaccia immateriale” i sapori e i saperi, i luoghi, la cultura, la scienza, l’artigianato della nostra Italia?

Dobbiamo reinventare nuovi modelli che da un lato valorizzino, ibridino, contaminino e arricchiscano le nostre unicità e, dall’altro, vengano incontro alle ansie e alle preoccupazioni delle persone.

Ci serve un nuovo equilibrio che vada oltre il superficiale entusiasmo e un immaturo “nuovismo” da un lato, e la difesa acritica del presente e dello status quo dall’altro. E siamo noi tecnologi, entusiasti e artefici del “mondo nuovo”, che per primi dobbiamo contribuire a definire e declinare questo nuovo equilibrio. Siamo noi per primi che definiamo lo spazio del possibile che viene dischiuso dalle tecnologie. Di conseguenza, siamo noi per primi che in modo responsabile e lungimirante dobbiamo aiutare a ibridare e arricchire il “mondo vecchio” con quello moderno.

È una grandissima responsabilità che non possiamo eludere. Rifugiarci in un semplicistico e comodo “modernismo” non farebbe altro che aumentare il divario tra chi si sente partecipe della rivoluzione digitale e chi ne rimane ai margini. Opporci all’innovazione digitale è antistorico e autolesionista, oltre che velleitario. Dobbiamo guardare avanti, in modo intelligente e lungimirante. E dobbiamo essere noi — attori dell’innovazione — a lavorare per primi alla ricerca di un nuovo equilibrio tra vecchio e nuovo, tra tradizione e innovazione, tra voglia di futuro e amore per le nostre radici.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here