Schadenfreude: se soffri, sono felice

Il tedesco di certo non l’addolcisce. E comunque nemmeno la lingua dove il sì suona saprebbe rendere amorevole la perfidia nascosta nel termine composto germanico. Se volessimo tradurre la schadenfreude in italiano potemmo definirla la “gioia che nasce dalla sofferenza altrui”, da shaden > danno e freude > gioia.

Nella schadenfreude affondano le proprie radici forme di sadismo, narcisismo o il timore di rifiuto e di abbandono. La schadenfreude è tra noi più di quanto possiamo immaginare: trasmissioni TV, chiacchiere da strada e web ne danno ampiamente spettacolo, e i social sono il luogo in cui trova un nutrimento speciale.

Uno studio della Ohio State University illustra come le persone con autostima bassa o instabile tendono a confrontarsi sui social con qualcuno che ritengono inferiore per sentirsi più forti e trovare un’implicita approvazione al proprio modo di essere. Il fallimento, la sventura, il difetto altrui diventa miccia per accendere la propria instabile felicità, e le parole innaffiate di veleno frecce nella faretra del gattino che si trasforma in “leone da tastiera” grazie al macrospico filtro del monitor. Il confronto con gli altri porta a costruire un’idea di sé basata sulle reazioni e sui giudizi esterni: se l’inferiorità fa star male, la superiorità fa stare bene.

Il nostro ego ci spinge a voler essere considerati (più che a essere in sé) i migliori e teme se qualcuno minaccia il primato. Abbiamo più fiducia nei consensi che nelle nostre reali capacità. L’ansia di approvazione alimenta il senso di disagio e mina profondamente la percezione. Le aspettative nutrono il senso di depressione e si tende a ricercare sempre di più conferme all’esterno. Abbiamo paura di guardarci allo specchio però guardiamo gli altri con la lente di ingrandimento, e per questo li vediamo più grandi di noi, nel bene e nel male.

Se falliamo perché altri fanno performance migliori delle nostre, o se riusciamo perché altri fanno performance peggiori della nostra, in entrambi i casi è questo il metro con cui misuriamo il nostro agire. È stressante prendere consapevolezza di come i confronti sociali influiscano sulla nostra autostima e sulla parametrizzazione dei nostri successi o fallimenti.

Aumentando le sventure degli altri, crescono le possibilità di risultare vincenti o migliori e cambia la percezione che abbiamo di noi – e che crediamo gli altri abbiano di noi. I social ci spingono costantemente a spiare l’altro che, senza saperlo, allo stesso tempo e con le stesse dinamiche, tende a confrontarsi con noi. Diventa una guerra “tra poveri di consapevolezza”, alla ricerca spasmodica di fanbase o visualizzazioni a molti zeri, commenti di conferma e popolarità da cheerleader.

Le recensioni sono lo strumento preferito per punire (le imprese degli altri) o glorificare (le proprie). Anche Facebook, non so se ci hai fatto caso, sta iniziando a dare un peso sempre più massiccio alle recensioni, perché il modo in cui qualcuno valuta il valore di qualcun altro è in grado di condizionarne la percezione. E se aumentano le opinioni negative, ecco che la dopamina contribuisce a elevare la nostra autostima.

Schadenfreude e invidia

Lo so, non sei un invidioso. Nessuno è invidioso. L’invidia, come la schadenfreude, la neghiamo a priori per 2 motivi:

  1. È socialmente (e spiritulamente) riprovevole
  2. Essere invidiosi è, palesemente, una ammissione di inferiorità

Nell’Inferno dantesco, gli invidiosi avevano gli occhi cuciti con il fil di ferro, un contrappasso che non permetteva loro di in-videre (mal vedere) quello che facevano gli altri.

L’invidioso sfoga la sua schadenfreude con una malignità subdola che sa attraversare sfumature di cattiveria (critica, ingiuria, invettiva) e cadere anche nel lagnoso vittimismo demagogico che esalta la giustizia della pena inflitta all’altro, specie se non vive una condizione “simile”. Non è un caso che nella tradizione popolare l’invidioso sia in grado di “gettare il malocchio”, sfortune e sciagure sul malcapitato bersaglio della sua osservazione.

Quelli più ricchi, più belli, più bravi, più qualcosa provocano un innato malevolo pregiudizio ma non danno fastidio come quelli che stanno allo stesso livello e sembrano ottenere o avere qualcosa di più rispetto a sé.

L’invidia diventa così una forma di giustizia, legata alla propria scala di valori personale: se la sfortuna colpisce te, è una ingiustizia; se capita a un altro – magari tuo competitor –  beh, allora una buona ragione a sostegno dell’accaduto è sempre prevedibile.

Ecco spiegata, forse, la narcisistica maniera di fare personal branding che spinge a far vedere quanto si è di più per far sentire l’altro quanto è di meno (e goderne).

C’è una frase di Zygmunt Bauman in Meglio essere felici che esprime bene il concetto: “Comprare con i soldi che non si sono guadagnati cose che di cui non abbiamo bisogno per fare una buona impressione a persone di cui non ci importa nulla”. Ma delle quali ricerchiamo, nonostante tutto e spasmodicamente, l’approvazione.

Facebook Comments

Previous articleSoftware Defined Networking: quali opportunità?
Next articleFuture of Apps: i trend del cambiamento
Stratega del content marketing, appassionata di customer experience e co-fondatrice di Simmat, da oltre 15 anni scrive per la carta e il web. Comunicazione e marketing digitale sono materia degli eventi e dei corsi ai quali partecipa come speaker e docente in giro per l’Italia. Ambasciatrice del karma marketing, il content di valore è il suo credo, l’experience design la sua metodologia e l’ironia lo strumento per rendere usabile e comprensibile a tutti il mondo dei bit. Giada è membro dell’Internet Marketing Association, consigliere di Assintel Umbria e di Terziario Donna Umbria. E' autrice del libro "Customer Experience: fai marketing di valore nell’era dell’esperienza". Conduce il podcast Buzzword: https://www.spreaker.com/show/buzzword

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here