Manager donna in aziende quotate in borsa? Solo il 9%

Solo un 9% le donne in posizioni manageriali in aziende quotate in borsa, nessuna amministratrice delegata. Troppo poche rispetto alla media europea, che arriva almeno a un 15%. Questi i numeri contenuti nel rapporto “Più donne nel management, più opportunità per il Paese” curato dal Club 30%.

Valeria Santoro, country manager di Stocard, rientra nella piccola percentuale di coloro che ce l’hanno fatta a diventare manager d’azienda. Laureata in Economia Internazionale e “masterizzata” in Marketing Management e un altro in Sales Data Analysis, ha lavorato in aziende come Google e Nokia prima di approdare a questa nuova dimensione professionale.

La sua carriera professionale rappresenta indubbiamente un esempio (e un incoraggiamento) per molte donne. Ma quali sono gli elementi indispensabili per avere successo nel lavoro? Quali invece gli errori più frequenti che le donne commettono?

Se dovessi riassumere in tre parole gli elementi che mi hanno condotto al punto in cui sono oggi direi sicuramente le 3P, che non sono quelle del marketing ma quelle che ci vogliono per fare succedere le cose nella vita: Passione, Preparazione, Personalità.

Passione. Non importa l’ambito di studio, di ricerca o di lavoro. Credo che la passione faccia la differenza, sempre. Da quando inizi a studiare, in poi. Per sempre. La passione è quella normale tensione verso. Quella energia che ti rende instancabile, che ti fa leggere in 1 minuto un articolo, che ti fa porre delle domande e venire dubbi, che ti fa vedere tutto il mondo intorno in relazione, come una rete costruita attorno ad un punto. La passione è quando quello che fai alimenta anche te creando una catena virtuosa, o viziosa, per cui non smetti mai di pensare perché se non trovi la soluzione o la risposta non riesci a passare al livello successivo. Proprio come in un video games. Io non ho mai giocato ai video games. Un giorno mi hanno regalato una playstation e l’ho regalata. Un giorno ho scoperto la parola ‘innovazione’: sto ancora studiando perché voglio arrivare al livello successivo.

Ma ci è voluta anche tanta:
Preparazione. Preparazione ‘accademica’: banalmente se non mi fossi laureata con il massimo dei voti non sarei entrata in Google, per non parlare dell’inglese e dell’utilizzo degli applicativi che sono ‘mandatory’. E poi tutto quello che è venuto dopo: la verità è che non finisci mai di studiare ed imparare, specialmente nel settore dell’innovazione dove chi si ferma non è fermo, é indietro. E poi c’è la Preparazione ‘pragmatica’: quella che ti rende in grado di ‘sapere stare al mondo’. Ringrazio di aver deciso di lavorare durante il periodo dell’università: ho dovuto imparare a relazionarmi con le persone e le personalità più diverse. Un’altra importante palestra è il mercato. Sì il mercato. I veri maestri di negoziazione sono li: trattano tutto il giorno. Da loro ho imparato molto. Ancora una volta pratica di interazioni fondamentali che devi sperimentare sulla tua pelle.
Quindi volli fortemente volli, studiai fortemente studiai, ma poi ci è voluta molta Personalità. Quella che nelle riunioni ti fa dire di no, anche i ‘no’ che sai che non sono comodi. I ‘no’ che se sei integro non puoi trattenere. E che quando escono dalla bocca di una donna fanno ancora più effetto. Sì, ci è voluta personalità per dire sempre quello che penso senza aver paura. Quella paura che in realtà hanno spesso anche gli uomini ma che in una donna ci si aspetta. Ma alla fine paura di cosa? Fino ad un certo punto della mia carriera lo stipendio che ho guadagnato in azienda è stato inferiore a quello che guadagnavo durante l’università: dalle ripetizioni alla cameriera alla babysitter alla hostess, in un mese guadagnavo di più. Ho sempre saputo che male che andava mi sarei rimboccata le maniche e con umiltà avrei risolto. Ecco questa visione della soluzione possibile mi ha resa forte.

Ecco forse il primo errore delle donne è questo desiderio di accettazione nel gruppo (di maschi) che porta a non deludere mai la loro aspettativa: quella di dire sì sempre. Il secondo errore ancora più grave è quello di non essere solidali con le altre donne ed anzi essere le prime a criticarle (a meno che l’altra donna sia brava ma munita di apparecchio, occhiali e gobba). Incredibile: questo fenomeno perfettamente descritto da Tornatore nella Sicilia della II guerra mondiale. E siamo ancora lì, all’autoghettizzazione. Terzo errore è quello di scimmiottare gli uomini. Del resto sono gli stessi uomini che hanno definito i contorni di questo fenomeno: ‘le UOMA’ (che inglese non è).  Rispetto e curo la mia femminilità. La diversità è importante per fare evolvere qualsiasi sistema: in Italia solo il 9% dei C-level sono donne. Di giugno la notizia del primo CEO donna di un colosso bancario negli Emirati Arabi. Al 124° posto del ‘gender gap report’ del WEF. Ecco la cosa che mi stupisce è che sia una notizia. Il problema è che lo stesso effetto lo abbiamo in Italia: ancora al 50° posto. Non un caso il fatto che i paesi eticamente più evoluti siano in alto a questa classifica. Eppure siamo l’ottavi al mondo in termini di PIL.

Nonostante si parli sempre più di necessità di parità di genere, ancora grande è il gap salariale. Perché a suo avviso? Quali i correttivi che ritiene potrebbero abbattere questo gap?

Il gap salariale uomo-donna in Italia, ben esplicitato da un articolo Ansa del 6 marzo, è di oltre il 30%. Un numero incredibile che ci mette al primo posto, a pari merito con l’Ungheria, nella classifica del gap salariale europeo.

Questo gap, a mio avviso, è dovuto da una parte dalla mancanza di trasparenza dei livelli di remunerazione e dall’altra alla paura di chiedere. Per quanto riguarda la mancanza di trasparenza dei livelli di remunerazione, in Italia ogni lavoratore tratta individualmente il suo stipendio ed è evidente che per le donne le aziende applicano un range di contrattazione più basso. La cosa ancora più incredibile è questo senso di segretezza del proprio stipendio: nessuno dice mai quanto prende per un senso di privacy nella convinzione di allontanare le invidie. Senza pensare che questo atteggiamento non fa che alimentare non solo il gap salariale ma anche le discriminazioni salariali di tutti.
Il secondo fattore che alimenta questa il gap è la paura di chiedere. Credo che questo sia un atteggiamento tipico del lavoratore in Italia ed ancora più connaturato nella donna che quasi si sente una privilegiata già per il solo fatto di lavorare in una multinazionale o in un’azienda prestigiosa. E qui ritorniamo al discorso della personalità di cui parlavo prima e che è necessaria per sconfiggere la paura di dire no o di chiedere. In merito ai correttivi, direi che in una società etica la trasparenza salariale non può e non deve essere una opzione per le aziende. Ho avuto la fortuna di lavorare in aziende in cui la retribuzione ed i sistemi premianti erano ben chiari e condivisi ed in cui i feedback sono peer-to-peer e bottom-up. Aziende in cui si valuta il raggiungimento oggettivo di KPI individuali (Key Performance Indicator = indicatore chiave di prestazione) perché le opinioni sono il metro di chi vuole discriminare.

Quali le forme di supporto/aiuto (non solo per le donne, ma per i lavoratori in generale) che ha ritenuto di maggior valore incontrati nel suo percorso professionale e che ritiene si dovrebbero applicare nelle realtà aziendali?

Per la crescita professionale senz’altro mi è stato di supporto, ed oggi di esempio, l’approccio formativo che in particolare le aziende americane hanno: periodo di formazione iniziale (3 settimane), un mentore sempre a disposizione (buddie) ed un percorso formativo che è partito da come si scrive una email, ha toccato poi il time-management, per arrivare fino al public speaking. Ho avuto poi modo di seguire le mie attitudini e partecipare a progetti di mio interesse in altre aree di business. Mi ha aiutato anche molto la completa fiducia e la delega incondizionata che mi è stata data da capi lungimiranti e la rotazione su diversi ruoli/mansioni aziendali: ho sperimentato ed imparato veramente tanto.

Riconosco di aver avuto esperienze esemplari ma ho visto anche ‘the dark side of the moon’ come tutti in Italia, anche in aziende in cui non te lo aspetti. Oggi ho la fortuna di contribuire nell’azienda in cui lavoro, Stocard, applicando approcci che sono stati alla base della mia formazione ed introducendo quello che mi è mancato. A mia volta apprendo nuove dinamiche, nella logica del contagio reciproco in cui il risultato non è la somma ma la moltiplicazione. Ed è così che dovrebbe essere sempre: vieni assunto per aggiungere. Il problema è che spesso in Italia poi finisci per dover stare zitto. E l’innovazione, la creatività e la velocità di cui c’è bisogno si esauriscono in un buon proposito o uno slogan, che è anche peggio.

In Stocard mi aiuta e mi arricchisce fa filosofia ‘zero internal emails’, ‘zero internal meetings’ ed il reale ‘all you can need’ come professionista e persona. Non parlo di Smart-working perché è talmente un fenomeno superato per noi che non fa neanche più smart parlarne: in Italia ed in tutti i paesi siamo dove è necessario. Senza spese fisse ci avvaliamo dei migliori circuiti di co-working space a Milano, Roma e negli altri paesi. Stocard è un’azienda in cui davvero la persona ed il suo tempo sono al centro. Del resto a quanti meeting interni inutili ognuno di noi ha partecipato? Tutto tempo perso. Quel tempo che poi è stato sottratto alla famiglia e allo sport. Ecco meglio una corsa in più ed un meeting in meno.

Parlando di Stocard, quali gli sviluppi futuri che ritiene possano essere più interessanti? Quale il ruolo dell’analisi dei dati per Stocard e in generale oggi in azienda?

La missione di Stocard è quella di digitalizzare il portafoglio fisico e permettere presto ai nostri utenti di uscire di casa solo con lo smartphone e le chiavi. Abbiamo iniziato con il rendere possibile la digitalizzazione delle carte fedeltà che oggi ingombrano almeno il 50% dei nostri portafogli.

Oggi siamo di fatto il Mobile Wallet n.1. In Italia e all’estero. In Italia abbiamo raggiunto 2,5 milioni di utenti, di cui 2,1 milioni (84%) attivi mensilmente con 6.6 utilizzi media. Un numero impressionante che denota non solo quanto Stocard sia una soluzione mass market riconosciuta dal consumatore ma anche quanto la nostra crescita sia organica, sana: il vero marketing è la soluzione che funziona. Ecco perché Stocard è ritenuto l’unico vero anello di congiunzione tra il digitale ed il negozio fisico. Se ci pensiamo, a prescindere da come si paga, se in contanti (83% delle transazioni) o con carta di credito/debito (il residuale 17%), il nostro utente apre Stocard e carica i punti sulla carta fedeltà del negozio e poi paga. Ma la nostra strada non si ferma alle carte fedeltà: il 2017 è l’anno dell’implementazione del Mobile Payment in Stocard. Ci stiamo lavorando da due anni e lo stiamo facendo avvalendoci di professionisti della Silicon Valley che hanno lavorato al marketplace di Amazon ed al mobile payment di Walmart: Rocketship.vc, primo tra gli investitori di Facebook. Questo sviluppo ulteriore porterà a snellire ancora di più il portafoglio del consumatore, che potrà lasciare a casa non solo le carte fedeltà ma anche le carte di credito/debito.

Mi sono trovata poco tempo fa in un workshop sui ‘dati’ organizzato proprio dal Politecnico di Milano nell’ambito dell’Osservatorio ‘Mobile B2C Strategy’ a cui Stocard partecipa. Con mia grande sorpresa alcuni degli interlocutori di alto livello seduti al tavolo erano convinti che Stocard avesse in mano tutti i dati del consumatore. Colgo quindi l’occasione per chiarire che Stocard non usa i dati del consumatore. E non lo dico io, lo dicono i fatti: quando scarichi l’app non ti viene richiesto alcun dato. La privacy per noi è fondamentale. Il nostro utente è centrale: sviluppiamo le nuove funzioni sulla base delle sue richieste e lo facciamo cercando di garantire la migliore user experience: la semplicità. E su questo non scendiamo a compromessi per nessuno.

Mi rendo conto che un approccio del genere in un contesto storico in cui non si fa che parlare di ‘Big Data’ (termine modaiolo come ‘Traminer’ al ristorante), risulti strano. I dati sono fondamentali per prendere le decisioni giuste in grado di impattare massivamente. Vero anche che troppi dati creano solo entropia ed ingessano le decisioni. E nel mio percorso di manager ingessati che avevano paura di prendere una decisione ne ho visti troppi. É stato per me illuminante un libro: ‘Blink – the Power of Thinking without Thinking’ di Malcom Gladwell. Gladwell spiega attraverso casi reali come decisioni importanti, un chirurgo che deve salvare una vita ad esempio, dipendano dall’analisi di pochi dati e come l’aumentare i dati alla base del processo decisionale possa solo condurre alla stessa diagnosi ma con più tempo o addirittura ad una diagnosi errata. E se è vero per chi salva vite umane credo che sia applicabile in tutti gli ambiti decisionali. Del resto quando l’utilizzo di internet da mobile è un fenomeno che riguarda oggi il 60% degli italiani e poi apprendo che gli investimenti di marketing sul mobile rappresentano solo il 36% del totale investimenti di marketing in internet (dato previsionale 2017 del Politecnico di Milano) mi viene da pensare che il problema non sono i dati che abbiamo a disposizione.

Cosa diversa è invece la capacità di un’azienda di collezionare i dati effettivamente essenziali per prendere decisioni o per svolgere attività di CRM mirate. Dati che oggi arrivano da fonti-file diversi. Credo che il nodo della questione in Italia sia piuttosto questo. L’adeguamento dei sistemi di CRM ovvero l’utilizzo di piattaforme di ultima generazione, le cosiddette DMP (data management platform), che sono in grado di accogliere e analizzare dati che provengono da fonti offline, online e mobile al fine di individuare comportamenti d’acquisto simili e quindi attivare una comunicazione mirata per cluster di consumatori. In questo Stocard, che non rilascia dati dell’utente in alcun modo, può supportare le aziende come una vera e propria estensione di CRM ‘blind’.

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