Tutela dei beni culturali: abbiamo un problema?

La scorso mese nell’articolo “Tutela dei beni archivistici e culturali: questione di copyright?” avevo fatto una panoramica commentata dei vincoli alla riproduzione dei beni culturali, spiegando che questi vincoli non hanno tanto a che fare con il copyright quanto con il diritto amministrativo. Ora cerchiamo di andare a un livello di approfondimento ulteriore e cerchiamo di capire quali siano la ratio e la natura giuridica di questi vincoli. Questione che non ha solo valore di divertissement dottrinale, poiché può far emergere i veri limiti di questo sistema di tutela dei beni culturali probabilmente inadeguato alla cosiddetta società dell’informazione in cui viviamo. D’altro canto, queste norme, benché novellate nel 2014 e successivamente nel 2017, risalgono ad anni (i primi anni del decennio scorso) in cui non si percepivano pienamente le opportunità offerte dalla libera diffusione del patrimonio informativo e culturale pubblico. Quindi non sarebbe così strano se dovessero già risultare superate nell’approccio.

Troppa discrezionalità alle singole PA

Innanzitutto si noti che tutto l’apparato di tutela previsto dal legislatore italiano appare molto conservatore, anche dal punto vista semantico. L’articolo 107 dice testualmente che le pubbliche amministrazioni che hanno in consegna i beni culturali “possono” consentirne la riproduzione, quasi a sottolineare che la riproduzione non sia affatto un “diritto” per i cittadini, bensì piuttosto una “gentile concessione” che gli enti pubblici hanno facoltà di accordare o negare; e a lasciare un’ampia discrezionalità della pubblica amministrazione.

Sì, perché il problema centrale è proprio questo: la discrezionalità lasciata alla PA nel determinare i vincoli e i canoni per la riproduzione, con conseguente aumento dell’incertezza per il cittadino (nonché per noi professionisti chiamati alla consulenza e assistenza giudiziale su casi di questo tipo). Dovendo trattare casi come questi, ci si chiede infatti quale sia la sanzione e in quale norma sia indicata e poi quale sia l’ente preposto a comminare tale sanzione. E, ahinoi, non si riesce a giungere a risposte chiare e univoche a tali quesiti; forse perché, appunto, la riposta non va cercata nelle norme nazionali, ma nei vari regolamenti degli enti competenti.

L’enforcement di questi vincoli

Altro profilo problematico è quello dell’enforcement di questo quadro di regole poco chiaro. In altre parole: quali sono gli strumenti per far rispettare concretamente queste regole?

Dal momento che siamo nel campo del diritto amministrativo e non nel campo del diritto della proprietà intellettuale, si potrebbe pensare che l’enforcement di questi vincoli debba essere unicamente basato sugli strumenti tipici del diritto amministrativo. La PA competente potrebbe ad esempio applicare direttamente una sanzione amministrativa al cittadino o all’azienda che non ha rispettato i vincoli di riproduzione e non ha versato i canoni; e questi dovrebbe attivarsi in giudizio per contestare tale sanzione.

Più verosimilmente però, trattandosi semplicemente di canoni non pagati e non essendo prevista una specifica sanzione in una legge primaria (principio di legalità delle sanzioni amministrative), la tutela sarebbe quella ordinaria di fronte al giudice civile. Che poi è esattamente quanto è successo nei recenti casi di Firenze sull’utilizzo delle immagini del David di Michelangelo (conservato presso la Galleria dell’Accademia) e di Palermo sull’utilizzo delle immagini del Teatro Massimo (in particolare della facciata, quindi di una parte esposta sulla pubblica piazza). Nel primo caso era stata emessa un’ordinanza da parte del tribunale civile del capoluogo toscano con la quale si inibivano ulteriori utilizzi non autorizzati dell’immagine del noto monumento; nel secondo caso è stata emessa una sentenza da parte del tribunale civile del capoluogo siciliano nella quale è stato riconosciuto il diritto esclusivo all’utilizzo e alla riproduzione dell’immagine del bene culturale e, tra l’altro, è stata “ripescata” una normativa del 1994 per la quantificazione dei canoni (si consiglia la lettura integrale del provvedimento).

Vincoli anche di natura contrattuale

Il quadro si fa ancora più complicato e farraginoso se consideriamo che, oltre ad applicare le norme regolamentari che disciplinano i canoni di cui al citato articolo 108 (le quali di per sé non sono affatto cristalline, come abbiamo spiegato), in alcuni casi a coloro che fanno richiesta di utilizzare i beni culturali e che intendono versare i relativi canoni le pubbliche amministrazioni impongono di sottoscrivere una sorta di contratto-licenza, nel quale il soggetto richiedente dichiara preventivamente quali utilizzi farà della riproduzione e soprattutto si impegna contrattualmente a non eccedere determinate condizioni d’uso. In altre parole, quando si tratta di imporre vincoli, dove le leggi e i regolamenti non arrivano, arriva il contratto.

In questo modo si torna a sovrapporre il piano del diritto amministrativo a quello del diritto civile (contrattuale), e ovviamente anche a permettere un maggior livello di controllo sulle riproduzioni di beni culturali con conseguente restrizione del pubblico dominio.

Un approccio vetero-burocratico?

L’excursus compiuto in questo e nei precedenti articoli ci mostra che la disciplina giuridica italiana della riproduzione di beni culturali è tutt’altro che chiara e probabilmente anche non più pienamente adeguata per rispondere alle nuove istanze poste dalle innovazioni tecnologiche e digitali sopraggiunte in questi ultimi quindici anni. Come sempre accade, quando in un ordinamento giuridico di civil law come il nostro, il diritto scritto rimane indietro, ci sono solo due soluzioni praticabili da parte dei cittadini: fare pressioni sulla politica affinché vengano approvate norme più moderne e lungimiranti, oppure portare avanti iniziative di informazione e divulgazione, oltre che, ove possibile, fare attività di “hacking civico” per forzare il sistema e mostrarne le debolezze intrinseche.

Un maggior livello di consapevolezza su questi temi permette agli utenti di diventare “vittime” meno facili di chi vuole diffondere FUD. Una filosofia più illuminata e innovativa sarebbe però auspicabile anche dal lato della pubblica amministrazione. Ad esempio gli amministratori pubblici potrebbero sforzarsi di abbandonare l’approccio vetero-burocratico che ancora permane in numerosi apparati (si veda l’esempio poco incoraggiante dell’Archivio di Stato di Palermo) e la mentalità, criticabile, secondo cui l’amministratore è “proprietario” e non semplice custode dei beni culturali; ma soprattutto potrebbero evitare di accampare diritti inesistenti, cadendo nelle stesse tentazioni in cui normalmente, e meno colpevolmente, cadono gli operatori commerciali dell’industria del copyright.

E se poi qualcuno ci guadagna? E’ davvero un male?

Troppe volte nella public sector information le giustificazioni generalmente fornite ad un approccio iper-protezionistico si possono riassumere nella frase «e se poi qualcuno ci guadagna?!». Innanzitutto, se qualcuno guadagna su qualcosa che è liberamente a disposizione di tutti, vuol dire che è riuscito a trovare una chiave vincente rispetto ad altri operatori che hanno avuto il suo stesso identico punto di partenza; inoltre, inviterei tutti a tenere presente che la pubblica amministrazione ha la mission di amministrare la cosa pubblica e non è comunque in concorrenza con il mondo dell’impresa. Quindi, forse, se qualcuno ci guadagna potrebbe essere un bene a livello macroeconomico e comunque non dovrebbe essere una preoccupazione per la pubblica amministrazione. Il senso della cosiddetta Direttiva PSI 2.0 è proprio quello di incentivare la libera disponibilità dei patrimonio informativo degli enti pubblici in quanto possibile leva per nuove forme di economia.

Se invece il problema è la mancanza di fondi per la tutela dei beni culturali – problema reale e particolarmente sentito in un paese come l’Italia che ha il patrimonio più prezioso al mondo – viene da chiedersi: siamo sicuri che il modello più adeguato sia tenere sotto controllo le riproduzioni di beni in pubblico dominio e cercare in tutti modi di lucrare anche su di esse? Forse possiamo trovare una nuova formula.

 

Nota: questo articolo replica e rettifica in parte quanto da me già scritto nella parte finale dell’articolo “Vincoli alla riproduzione dei beni culturali, oltre la proprietà intellettuale” (vedi), da me pubblicato sulla rivista “Archeologia e calcolatori” e chiuso in redazione ben prima dell’uscita dei due provvedimenti giurisprudenziali citati.

 

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Simone Aliprandi ha un dottorato in Società dell’informazione ed è un avvocato che si occupa di consulenza, ricerca e formazione nel campo del diritto della proprietà intellettuale, con particolare enfasi sul mondo delle tecnologie open e delle licenze Creative Commons. Nel 2005 ha fondato il Progetto Copyleft-Italia.it (primo progetto italiano di divulgazione sul tema delle licenze open) e dal 2009 è membro del network di professionisti Array. Svolge costantemente attività di docenza presso enti pubblici e privati, ha all’attivo varie pubblicazioni (tutte rilasciate con licenze libere) e scrive costantemente per alcune testate web oltre che sul suo blog. Tra le sue opere più conosciute "Capire il copyright. Percorso guidato nel diritto d'autore", "Creative Commons: manuale operativo" e "Il fenomeno open data". Sito web: www.aliprandi.org

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