Una particolare, e secondo me bizzarra, interpretazione degli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali ha portato recentemente a due sentenze, una del Tribunale di Firenze, una del Tribunale di Palermo, purtroppo inedite, che a quanto riportano le cronache hanno riconosciuto un diritto ‒ che in mancanza di migliore definizione chiameremo “pseudo-copyright” ‒ su beni culturali in consegna al Ministero [dei beni culturali], delle Regioni e degli altri Enti pubblici territoriali.
Ma un tale diritto esiste?
Secondo me è una pura invenzione degli interpreti; un tale diritto non esisteva in origine (la prima versione del codice), non è sufficiente una norma di interpretazione autentica e parziale novellazione intervenuta sull’art. 108 CBC per introdurla, e se esistesse sarebbe in palese contraddizione con il diritto europeo, che è diritto armonizzato quanto a tutela dei diritti sulle opere stesse e alla loro durata. Ne ha parlato anche Simone Aliprandi in “Pensare in rete, pensare la rete per la ricerca, la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico”, supplemento alla rivista Archeologia e Calcolatori, pag. 105.
La norma
Non le opinioni di un umile autore, ma la lettera della legge dovrebbe dare un primo e affidabile indice.
1. Il Ministero, le Regioni e gli altri Enti pubblici territoriali possono consentire la riproduzione nonché l’uso strumentale e precario dei beni culturali che abbiano in consegna, fatte salve le disposizioni di cui al comma 2 e quelle in materia di diritto d’ autore.
“Possono” già è indicativo di una facoltà, non di un diritto di esclusiva come quello che si vorrebbe sostenere.
2. È di regola vietata la riproduzione di beni culturali che consista nel trarre calchi, per contatto, dagli originali di sculture e di opere a rilievo in genere, di qualunque materiale tali beni siano fatti. Tale riproduzione è consentita solo in via eccezionale e nel rispetto delle modalità stabilite con apposito decreto ministeriale. Sono invece consentiti, previa autorizzazione del soprintendente, i calchi da copie degli originali già esistenti nonché quelli ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto con l’originale.
Qui l’articolo sembrerebbe introdurre qualcosa di ambiguamente simile a un diritto di esclusiva. Ma il primo periodo è ovviamente dedicato a escludere o limitare l’utilizzo di tecniche invasive e potenzialmente pericolose per i calchi. Però è la riproduzione consentita “in via eccezionale”. Si potrebbe pensare, ma non è certo, che l’eccezione passi dal consenso previsto dal periodo successivo, ovvero quello concesso da parte del soprintendente. Il quale soprintendente può consentire le copie provenienti da calchi già eseguiti (e in possesso di chi?) “nonché” quelli ottenuti con tecniche che escludano il contatto diretto (scansione 3d? ottica?). Debbono essere autorizzate anche le fotografie? A me parrebbe proprio di no, perché le fotografie non sono “calchi”, e non vi è dubbio che “quelli” sia riferito a “calchi”. Si noti altresì che la parte che riguarda i calchi che escludono “il contatto diretto” (e quello indiretto?) è un’aggiunta posteriore, non presente nella versione originale del Codice. Senza di essa, nessuno avrebbe avuto anche solo la sensazione che questo articolo si occupasse dei diritti sulle riproduzioni, come oggetto di un diritto.
La ricostruzione del significato proprio delle parole non supporta in alcun modo che possa esistere sia un diritto di pseudo-copyright come quello ipotizzato.
La norma, pasticciata
Vediamo allora l’articolo 108.
1. I canoni di concessione ed i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto: […]
Prima annotazione: si tratta di canoni e corrispettivi determinati dall’autorità che ha in consegna i beni. Dunque non dal soprintendente. Sarebbe bizzarro che altri sia il titolare del diritto di concedere un permesso e altri colui che determina le condizioni a cui quel diritto è concesso. Sfuggirebbe la ratio. Se non riconoscendo, come mi pare a questo punto ovvio, che l’art. 107 c’entri come il cavolo a merenda con i corrispettivi per l’uso delle riproduzioni ottenute.
Escludiamo pertanto l’art. 107 da ogni ulteriore analisi, essendo inutile anche solo tenerne conto, se non sullo sfondo.
2. I canoni e i corrispettivi sono corrisposti, di regola, in via anticipata.
La previsione sarebbe sorprendente non poco qualora fosse riferita a uno pseudo-copyright. Chiunque abbia dimestichezza con i diritti di privativa simili a quelli ipotizzati sa che il compenso è solitamente connesso all’uso (per copia, a volume, in percentuale). Come potrebbe “di regola” essere questo un corrispettivo per l’utilizzo delle riproduzioni? Non mi pare che il legislatore avesse altro in mente se non un corrispettivo per l’uso diretto del bene, non della sua riproduzione.
3. Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente (1).
La parte dopo “purché […]” è un aggiunta che discuteremo con il successivo comma 3-bis. Qui troviamo ‒ come purtroppo spesso accade ‒ una norma che con buone intenzioni introduce confusione e possibili problemi che prima non esistevano, con l’intento di limitare tali problemi.
3-bis. Sono in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale:
1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni [ bibliografici e ] archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del presente titolo, attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né , all’interno degli istituti della cultura, l’uso di stativi o treppiedi;
2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro
“La divulgazione […] delle immagini”. Anche qui avremmo una paradossale conclusione, che è poi l’unica sostenibile da parte di chi afferma la presenza di questo pseudo-copyright, che un diritto di esclusiva sulle riproduzioni venga inserito grazie alla definizione… di ciò che è consentito, senza la definizione delle condizioni, termini, estensioni di ciò che è vietato. Questa al più potrebbe essere una norma di chiarimento di un diritto che esiste altrimenti. Non ha senso, non ha alcun senso, ipotizzare che sia questo il fondamento del diritto invocato.
Concentriamoci su “divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali legittimamente acquisite”. Sembrerebbe a contrario attribuire al depositario del bene culturale il diritto esclusivo di autorizzare la riproduzione delle fotografie riproducenti il bene stesso. Tale diritto sussiste però già in capo al titolare del diritto d’autore su opere figurative, su questo abbiamo già detto in precedenza). Tuttavia, se appartiene al titolare dei diritti di utilizzazione economica, ben difficilmente esso può appartenere anche a chi ha in custodia il bene, ci ritorneremo.
I diritti sulla fotografia, invece, sono acquisiti dal fotografo (colui che esegue la fotografia) in base all’art. 87 della Legge sul Diritto d’Autore (LDA). Da nessuna parete è scritto che i diritti sulla fotografia siano (anche) di chi possiede l’oggetto fotografato, pertanto il diritto sulla fotografia non può essere la fonte della pretesa del titolare del preteso pseudo-copyright. L’art. 88 LDA assegna, è vero, il diritto in capo al committente in possesso dell’oggetto, ma appunto si tratta di “committente”, ovvero chi commissiona la foto (sulla base di un contratto d’opera) e occorre che la fotografia sia stata eseguita in esecuzione di un tale contratto. La somiglianza con l’art. 12-bis LDA è evidente, e lì sta la ratio.
A me pare francamente che la norma, per giunta in un capo che si dedica all’uso dei beni culturali, non al loro sfruttamento economico, sia da interpretare unicamente a tutela della fisicità dell’opera e dei locali che la ospitano. Senza fantasiosi voli pindarici di diritto di pseudo-copyright che non stanno né in cielo, né in terra.
Seri problemi di diritto europeo
I diritti di esclusiva intellettuale e industriale sono armonizzati in Europa, non siamo dunque liberi di adottare norme nuove. Se lo facciamo, siamo comunque tenuti a comunicarlo alla Commissione Europea, in base all’articolo 11 della Direttiva 2006/116/EC.
In larga parte si tratta di diritti che confliggono direttamente con l’attribuzione di un diritto di esclusiva nella riproduzione, diffusione, comunicazione al pubblico eccetera, che sono conferiti all’autore per una durata di settant’anni dopo la morte. Non vi è dubbio che quel diritto spetti agli eredi. Non al custode del manufatto che (quadro, statua, opera architettonica!) pro tempore. Sarebbe impedito di fatto il libero godimento di tali diritti se vi fosse un diritto attribuito a un terzo che non sia anche il cessionario dei diritti di sfruttamento economico dell’opera.
La norma non cita il fatto che questo fantomatico diritto di pseudo-copyright sia assegnabile prima o dopo lo spirare del termine del diritto d’autore. Ma non è che operando una tale limitazione, il problema sia rimosso. Anzi! La durata dei diritti d’autore è limitata, gli stati non sono liberi di aumentarla, salvo per il diritto morale (ma qui non stiamo parlando di diritto morale, che comunque è sempre in capo all’autore, non al custode). Qui staremmo estendendo un diritto ben oltre i settant’anni dalla morte dell’autore.
Creare un diritto unilaterale su un’opera come la fotografia ‒ che è soggetta a un diritto armonizzato in Europa, sia in quanto fotografia in sé, sia soprattutto in quanto riproduzione di un oggetto di diritto d’autore ‒ crea un’intollerabile differenza nella circolazione dei beni immateriali di quel tipo a seconda non dell’opera in sé, ma del fatto inconoscibile dal percettore della fotografia opera di chi sia al momento il custode dell’opera.
È inconcepibile dunque che vi sia un diritto erga omnes del tutto scollegato da un legame contrattuale tra il soggetto depositario e il soggetto utilizzatore della riproduzione. Un tale diritto è del tutto eccezionale, giustificato solo in presenza di precisi incentivi alla produzione artistica e a beneficio di tutta la collettività (considerando 11 Direttiva 2006/116/EC).
Si taccia infine del fatto che tale diritto sarebbe assegnato a una categoria di soggetti, per giunta solo pubblici (!), solo italiani e neppure tutti (sono esclusi gli enti pubblici non territoriali, ad esempio); tale diritto non sarebbe conferito a soggetti diversi, come i privati, pure in presenza di attività altrettanto meritorie, ma nemmeno i musei pubblici non di pertinenza del Ministero né di enti non territoriali. La non discriminazione è uno dei principi fondamentali nella tutela della “proprietà intellettuale”. Una norma che riservi ad alcuni uno pseudo-copyright, che ricade pienamente nella definizione di proprietà intellettuale, violerebbe irrimediabilmente l’art. 114 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e molto probabilmente diversi accordi internazionali tra cui i TRIPS.
Non è mio compito, ma auspicherei che le difese nei due casi citati in esordio non escludessero il ricorso all’interpretazione pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Insomma, un ginepraio in cui è meglio non addentrarsi, soprattutto in via interpretativa.
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