Le relazioni nate sui social media: un problema di autenticità

Internet ha modificato le relazioni di coppia, questo è chiaro. Vorrei però in particolare approfondire le dinamiche che stanno dietro alle relazioni avviate attraverso i social media e attraverso le piattaforme di dating online. Quali sono i loro limiti?

Una delle opinioni più critiche recentemente circolate in Italia sui social media e sull’impatto che possono avere sulla vita relazionale è quella espressa dallo psichiatra Vittorino Andreoli in una intervista rilasciata a IlGiornale, in cui si legge:

Facebook andrebbe chiuso. Lì abbiamo perso l’individualità, crediamo di avere un potere che è inesistente, lì viene violato il nostro secretum. L’individuo non sta nelle cose che mostra ma in ciò che non dice. Invece i social ci spingono a dire tutto, ci banalizzano. […] sappiamo tutto delle persone prima di stringere loro la mano. Le relazioni invece devono avere un fascino, sono scoperta. I social sono un bisogno di esistere perché siamo morti. Creano una condizione di compenso per le persone frustrate”.

Secondo Andreoli si pone quindi un problema di autenticità. Il mio punto di vista è di certo meno tranciante e meno “luddista”; anche se in effetti il dubbio che mi pongo è proprio quello dell’autenticità. Viene infatti da chiedersi: quante di queste “connessioni” a portata di click potranno generare relazioni autentiche?

La statistica conferma che di relazioni vere, appaganti e solide nate da incontri virtuali ce ne sono sempre più; a conferma che un approccio a priori diffidente non sia corretto. Tuttavia per cento relazioni che hanno funzionato ce ne saranno sicuramente n-mila che hanno invece creato false illusioni, frustrazioni e delusioni, e delle quali gli annali della storia delle relazioni non tengono traccia proprio in virtù del principio del bacino di pesca infinito e del “ritenta, sarai più fortunato”.

Dalla mia esperienza, devo comunque ammettere che in alcuni casi ho trovato grande sintonia, confidenza e vicinanza, sia a livello personale sia a livello lavorativo, con persone conosciute attraverso i social media, che non avevo mai avuto modo di incontrare e con cui però sono nati progetti interessanti o con cui ci sono stati momenti di sincero confronto. È questo un effetto davvero singolare della comunicazione via Internet grazie al quale davanti allo schermo riusciamo ad aprirci di più; quindi paradossalmente una comunicazione mediata dal computer in realtà può diventare più autentica e sincera. Patricia Wallace nel suo “La psicologia di Internet” spiega bene il fenomeno, prendendo le mosse da un precedente studio di Joseph Walther:

Seduti davanti allo schermo ci si può sentire relativamente anonimi, distanti, fisicamente al sicuro e disinibiti. Talvolta, queste sensazioni portano a comportamenti insolitamente aggressivi […]; altre volte ci si comincia a sentire più vicini alla persona che sta dall’altra parte del video, sebbene mai incontrata, più che a una persona che sta nella stanza accanto. Accade di rivelare molto di sé, di sentirsi attratti e di esprimere forti emozioni. Davanti alla tastiera ci si può concentrare soltanto su se stessi, cioè le proprie parole, sulle sensazioni che si desidera trasmettere, senza doversi preoccupare dell’aspetto fisico […].

Quindi, stando a questo singolare principio, le relazioni costruite attraverso chat, forum, social media, siti di dating, possono tranquillamente portare a qualcosa di autentico a livello di confidenza amicale e di sintonia intellettuale e di valori. Il problema è che per una relazione di coppia serve anche altro, cioè l’attrazione, la scintilla che fa scattare il coinvolgimento emotivo. La comunicazione web è molto verbale (basata su parole, per lo più scritte), asincrona (nel senso che i messaggi vengono spessi letti a distanza di tempo), visiva (basata su immagini) e ci fa così perdere tutti i segnali non verbali e sincroni, come ad esempio quelli tattili e olfattivi (ma anche aspetti visivi come l’espressività e la gestualità o uditivi come il tono della voce), ancora determinanti per la scelta del partner. Non possiamo sperare che quei meccanismi, che la specie umana ha impiegato millenni a instaurare, possano essere travolti e sostituiti da altri nel giro di un solo decennio.

La mancanza di quei canali di comunicazione fa sì che non riusciamo a decifrare appieno le persone conosciute dietro lo schermo. Esse dunque potranno più facilmente presentarsi per quello che non sono e tenere celati gli aspetti della loro personalità (e a volte anche del loro aspetto fisico) che non ritengono dei punti di forza. In altre parole, su internet è più facile tenere nascosti i difetti e per contro enfatizzare i pregi, è più facile vestire maschere e creare personaggi; in un certo senso, su internet siamo più degli “avatar” che delle persone reali.

Le relazioni virtuali possono sì tramutarsi in relazioni reali e poi in relazioni autentiche, ma fino a quel passaggio subiscono questa mancanza di autenticità e si avvicinano più al modello delle pseudo-relazioni narcisistico-adolescenziali. Il fatto di gestire il tutto attraverso mouse e tastiera ci dà una sensazione di controllo; e il controllo non è compatibile con il concetto di relazione autentica.

Sui social media possiamo cancellare o addirittura bloccare le persone che non ci piacciono, che la pensano diversamente da noi, che hanno modi di approcciare per noi lontani. Bloccando o oscurando persone sui social media non facciamo altro che “addestrare” gli algoritmi di queste piattaforme creando quella che viene definita “bolla da social media”, per effetto della quale in realtà sui social creiamo una rete di relazioni “biased” e “clusterizzate” con persone troppo simili a noi. Si vive quindi in un mondo ideale e illusorio in cui abbiamo continue e sempre maggiori conferme del nostro punto di vista, in cui le opinioni si polarizzano eccessivamente e in cui, come conseguenza, diventiamo più vulnerabili a forme automatiche di comportamento.

Si può facilmente comprendere come lo stesso meccanismo dei “like” sia un grande amplificatore delle nostre corde narcisistiche. E come è noto, il narcisismo non ci porta a costruire relazioni autentiche bensì a circondarci di “paggi di corte” che lubrificano la nostra autostima.

Altro problema: essendo la comunicazione via internet, e soprattutto quella via social media, molto centrata sull’immagine, l’apparenza diventa tutto. Il mostrare di essere delle persone vincenti e piacenti risulta più importante che essere davvero vincenti e piacenti. La superficialità del mostrarsi diventa più importante della profondità dell’essere e ciò non può che allontanarci da un approccio autentico alle relazioni.

Infine, c’è da fare qualche riflessione su come funzionano i siti di dating online. Essi si basano su algoritmi a volte anche molto raffinati e indubbiamente performanti, studiati da psicologi e sociologi e impostati per individuare una compatibilità “a priori” tra i soggetti iscritti. Anche qui si crea un effetto distorsivo non indifferente per due grandi ragioni: la prima è che l’algoritmo macina ovviamente solo le informazioni che l’utente ha fornito alla piattaforma, quindi ovviamente bisognerebbe innanzitutto valutare quanto siano complete e veritiere tali informazioni; la seconda è che le relazioni sono soggette a una dinamica evolutiva costante e difficilmente si può pensare di definire una compatibilità “cristallizzata” a priori.

Come sottolinea acutamente Wallace,

i predittori più affidabili del successo della durevolezza di una relazione possono essere dedotti solo a posteriori, dopo l’incontro, sulla base dell’interazione e dell’attrazione reciproca reale tra i due partner. Forse non ci sorprende molto che gli algoritmi di abbinamento possono non essere particolarmente utili per far trovare la nostra anima gemella nello sterminato universo dei profili dei siti di dating.

Dunque, secondo la visione di Wallace (che mi sento di sottoscrivere) gli algoritmi, pur essendo dei mezzi potentissimi per una sorta di preselezione, non possono ancora sostituirsi del tutto ai meccanismi che la psiche umana ha sviluppato in millenni di evoluzione.

 

 

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Simone Aliprandi ha un dottorato in Società dell’informazione ed è un avvocato che si occupa di consulenza, ricerca e formazione nel campo del diritto della proprietà intellettuale, con particolare enfasi sul mondo delle tecnologie open e delle licenze Creative Commons. Nel 2005 ha fondato il Progetto Copyleft-Italia.it (primo progetto italiano di divulgazione sul tema delle licenze open) e dal 2009 è membro del network di professionisti Array. Svolge costantemente attività di docenza presso enti pubblici e privati, ha all’attivo varie pubblicazioni (tutte rilasciate con licenze libere) e scrive costantemente per alcune testate web oltre che sul suo blog. Tra le sue opere più conosciute "Capire il copyright. Percorso guidato nel diritto d'autore", "Creative Commons: manuale operativo" e "Il fenomeno open data". Sito web: www.aliprandi.org

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