Nonostante una legislazione all’avanguardia che invita tutte le Pubbliche Amministrazioni a rilasciare i dati per essere liberamente usati, riutilizzati e ridistribuiti da chiunque ne abbia interesse, in Italia gli open data stentano ancora a decollare. Tra i Comuni – che detengono una parte consistente dei dati di interesse pubblico, come quelli su trasporto pubblico, turismo, cultura e attività produttive – solo uno su tre pubblica dati in formato open. E quando avviene, questo è percepito dagli enti più come un obbligo normativo che un’opportunità, anche perché si fatica a comprenderne la reale utilità: i dati sono di bassa qualità, poco accessibili, non uniformi per un utilizzo a livello nazionale. E così, l’80% dei Comuni non riscontra alcun impatto positivo dalla pubblicazione di open data e il 55% li ritiene addirittura inutili o poco utili per la crescita del tessuto imprenditoriale.
Dall’altro lato, ben il 77% delle imprese manifatturiere considera strategico l’uso dei dati per il business, ma l’utilizzo di open data da fonte PA è riservato ancora a pochi pionieri, appena il 4% del totale, anche se il 45% vorrebbe conoscerli meglio. Perché possano essere utilizzati, i dati devono essere di qualità, aggiornati e corretti, con la ragionevole certezza di poter contare sulla disponibilità anche in futuro, ma le imprese devono anche acquisire maggiore consapevolezza delle grandi potenzialità legate al loro utilizzo e maggiore conoscenza sulle figure professionali necessarie per il data management (sconosciute al 68% del totale).
I dati della PA condivisibili in formato open possono essere messi al servizio del territorio e accelerare lo sviluppo del tessuto imprenditoriale. Se raccolti, ordinati, gestiti e pubblicati in modo efficiente, possono consentire alle imprese di informarsi in modo approfondito sulle caratteristiche e sulla segmentazione dei potenziali clienti, identificandone attività, spostamenti e trend di comportamento, con una descrizione dettagliata del territorio (geografica, urbanistica, sociale, culturale e demografica) per una pianificazione raffinata e affidabile delle attività di business.
Sono i risultati delle due ricerche condotte dall’Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano
“I numeri mostrano un Paese dove la pubblicazione di open data stenta a decollare – commenta Giuliano Noci, Responsabile scientifico dell’Osservatorio eGovernment -. I Comuni italiani sono ancora agli inizi del processo di pubblicazione del proprio patrimonio informativo e un’enorme quantità di dati non è disponibile in formato open. Il primo passo per favorirne lo sviluppo deve essere culturale: è necessario trasmettere agli Enti Locali l’importanza di questa attività, non solo per una mera questione di trasparenza, ma per incentivare e aiutare lo sviluppo del tessuto economico e sociale del paese. I Comuni devono essere coinvolti, resi partecipi fin dalle fasi iniziali ed è importante che abbiano le risorse adeguate per rendere i dati fruibili in formato aperto”.
“Si denota una grande varietà di tipologie di dati pubblicati, mentre non ci sono categorie di dati pubblicati da tutti i Comuni – rileva Michele Benedetti, Direttore dell’Osservatorio eGovernment -. Questo rende difficile fare massa critica per un possibile utilizzo dei dati a livello nazionale. Per superare questo ostacolo, un ruolo fondamentale spetta a Regioni e Enti Centrali, in particolare AgID e Team Digitale, che dovranno dettare gli standard, le linee guida e accompagnare gli Enti nel processo di creazione e pubblicazione di open data di qualità e uniformi su tutto il territorio nazionale, iniziando a definire una priorità dei dataset da pubblicare”.
I Comuni
Secondo l’analisi dell’Osservatorio eGovernment su 731 Comuni italiani, solo il 37% ha già pubblicato dati in formato open. Una percentuale che cambia notevolmente a seconda del numero di abitanti dell’Ente: arriva all’86% tra i Comuni di grande dimensione, con più di 50mila abitanti, e cala al 28% per i piccoli, sotto i 5.000 abitanti. L’indagine evidenzia molta incertezza sull’utilità di pubblicare i dati: la maggioranza degli Enti ritiene che siano utili soprattutto a monitorare l’operato dell’Amministrazione da parte dei cittadini, mentre la crescita del tessuto imprenditoriale è considerata inutile o poco utile dal 55% dei Comuni. Con la conseguenza che ben il 60% dei Comuni non ha registrato alcun impatto positivo sul territorio a seguito della pubblicazione.
La ricerca ha provato a classificare i Comuni sulla base delle dimensioni [1] utilizzate dal DESI (Digital Economic Society Index) per misurare il grado di maturità dei Paesi europei. Secondo questo indice, che a livello europeo considera solo le iniziative nazionali, l’Italia si posiziona tra le prime in Europa in campo open data. Come si comportano invece gli Enti locali? Circa il 59% dei Comuni, la maggior parte di piccole o piccolissime dimensioni, si trova nei gruppi più arretrati: il 29% nel gruppo dei Beginner (quelli che si sono appena affacciati agli Open Data, iniziando a pubblicare i primi dataset e a definire ruoli e responsabilità), il 30% in quello dei Follower (che hanno iniziato a pubblicare i primi dati di qualità, anche con una struttura organizzativa nulla o insufficiente a supporto, e hanno generato scarsi impatti sul territorio). C’è poi un 34% di Comuni, equamente distribuiti sulle diverse fasce dimensionali, Fast-Traker: enti abbastanza maturi per numero e nella qualità dei dataset pubblicati e/o per qualità dell’organizzazione a supporto del processo di gestione dei dati, ma che devono ancora migliorare per ottenere impatti significativi sui propri territori di riferimento. Infine, il 7%, quasi tutti al di sopra dei 50.000 abitanti e nessuno al di sotto dei 10.000, rientra nel gruppo dei Trendsetter con un adeguato livello di organizzazione e qualità del dato.
Ma che tipi di dati pubblicano i Comuni italiani?
Di tipologie molto diverse. Nel 71% dei casi dati di amministrazione (dipendenti comunali, risultati elezioni, bilanci, spese e acquisti dell’amministrazione, bandi pubblici), nel 25% del territorio (come topografia, vincoli ambientali, piani comunali), nel 20% tributi (TARI, IMU, TARSU), nel 18% su sport, cultura e tempo libero (associazionismo, musei, biblioteche, luoghi ed eventi culturali, centri sportivi, eventi sportivi), nel 17% sulla popolazione residente (numero di abitanti, di stranieri, di giovani/anziani): non ci sono categorie di dati pubblicati da tutti i Comuni in modo uniforme e questo rende difficile fare massa critica per un possibile utilizzo a livello nazionale. Inoltre, i dati sono poco accessibili: la maggior parte dei Comuni li pubblica nella propria sezione trasparenza (il 83%) o sul sito istituzionale in una sezione ad hoc (33%), solo l’8% sul sito open data della regione e solo il 2% sul sito open data nazionale.
I principali formati dei dati pubblicati sono quelli “base”: il 53% in .csv, il 43% in Excel, sono praticamente assenti forme più avanzate. Solo nel 33% dei casi il dato viene prodotto automaticamente dal software, nel resto dei casi ha bisogno di almeno un passaggio manuale di un operatore, con maggior impiego di risorse e problemi di tempestività nella pubblicazione, oltre che di possibili errori umani nel dataset pubblicato. Nella maggioranza dei casi il dato pubblicato viene poi aggiornato, ma l’84% richiede un operatore addetto a quest’attività. Solo il 31% dei Comuni accompagna il dato con metadati. Nella quasi totalità dei casi (il 95%) manca una qualsiasi forma di monitoraggio dell’effettivo utilizzo dei dati da parte dell’utente.
Nell’opinione degli Enti, i principali ostacoli alla pubblicazione di open data sono la scarsità di competenze interne (50%) e la scarsità di personale interno (42%), seguiti dalle ridotte risorse economiche da dedicare (24%) e dal poco interesse della componente politica (23%). Ma si segnala anche la bassa conoscenza di ciò che è opportuno pubblicare (20%) e la mancanza (o la non conoscenza) di standard (16%). Coerentemente, la principale richiesta degli Enti e` di avere in futuro un supporto nello sviluppo di competenze e un aiuto economico per questa attività.
“Nei Comuni italiani appaiono totalmente assente visione strategica e modelli organizzativi per la pubblicazione degli open data – spiega Michele Benedetti -. Nel 76% degli Enti non è presente una figura o un gruppo di supporto specifico per la pubblicazione di open data e ben il 92% non ha un piano di rilascio”. Manca infine la conoscenza delle iniziative portate avanti a livello nazionale: il 64% dei Comuni che pubblicano open data non conosce l’esistenza dello standard DCAT_IT per le ontologie, il 74% non sa cosa sia il Data and Analytics Framework (DAF)”.
Le imprese
L’indagine realizzata da Unioncamere su 222 imprese manifatturiere tra 10 e 249 addetti, di tutto il territorio nazionale rivela un forte interesse prospettico circa l’impiego di open data da fonte PA in ambito business, anche se la capacità di utilizzare la mole importante dei dati open che la PA rende fruibili è soltanto agli inizi.
L’uso dei dati è considerato strategico dal 77% delle imprese. Che si dicono interessate ad utilizzare gli open data nel 51% dei casi per disporre di dati sul rapporto con l’estero, nel 41% sullo sviluppo attività produttive (come i dati su superficie commerciali, tipologia delle attività, autorizzazioni), nel 37% sull’energia e ambiente (come consumi energetici, livelli di inquinamento, efficienza energetica, rifiuti). Però il campione di imprese realmente «opendata user» è ancora limitato al 4% del totale: di questi, il 3% li considera importanti per la sua attività, l’1% ne fa il suo modello di business. Oltre metà delle imprese non li usa ancora, ma il 45% li sta esplorando oppure non li conosce ma si dice interessato.
Probabilmente per una scarsa conoscenza delle funzioni più avanzate, le imprese vedono come driver di sviluppo ancora le funzionalità` più` classiche dell’utilizzo dei dati, come la possibilità di catturare, gestire e archiviare tutti i dati aziendali, o renderli disponibili a tutti i livelli. Solo il 21% considera il dato come possibile fonte predittiva per anticipare le tendenze di mercato.
Il 70% delle aziende sostiene di essersi dotata di strumenti/competenze per il data management, ma in realtà il 68% non conosce l’esistenza di figure professionali come il Big Data Analytics specialist (presente solo nel 13% del campione analizzato), il Chief Data officer (8%), il Data Scientist (5%) o il Big Data Architect (5%), con un forte disallineamento tra la percezione e l’utilizzo reale delle figure professionali utili. Come supplenza, buona parte del campione si rivolge a fornitori specializzati, pochi fanno accordi con startup e un’esigua percentuale provvede alla riqualificazione del personale interno.
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