Grazie al Coronavirus l’Italia ha cominciato a parlare di smart working. Non che prima fosse uno sconosciuto – secondo i dati di un report di IDC, nel giugno 2019 circa il 50% delle aziende italiane aveva avviato programmi di smart working – ma, in questi strani giorni scanditi della conta dei contagi e dalle ordinanze regionali, c’è anche grande attenzione sulle migliaia di di lavoratori che hanno cominciato a lavorare da casa per evitare tutte quelle situazioni di aggregazione che potrebbero favorire la diffusione del virus.
Per le tante aziende che già offrono un programma di smart working non si è trattato di niente di speciale: un semplice adattamento su larga scala di qualcosa che già veniva fatto quotidianamente da una parte dei dipendenti. Per quelle che già applicavano lo smart working in modo informale si sta rivelando un’occasione per formalizzare e mettere a punto un modello probabilmente già molto più efficiente di quanto si potesse immaginare. Ma per molte altre si è trattato di dover mettere in piedi in capo a pochi giorni un sistema che permettesse alle persone di poter continuare a lavorare altrove rispetto all’ufficio, in modo che le attività aziendali non si bloccassero del tutto.
Ma come deve essere il vero smart working per essere davvero applicato al massimo delle sue potenzialità? Come deve essere strutturato e quali aspetti deve garantire per essere davvero efficiente e utile alla sostenibilità, dove per sostenibilità si intende non soltanto la semplice riduzione dell’impatto ambientale delle attività aziendali, ma anche il raggiungimento del cosiddetto work/life balance tanto caro ai “teorici” dello smart working?
Qui la faccenda si fa un po’ più autobiografica: chi scrive lavora nel centro di Milano ma vive in provincia e ha passato l’intera settimana a lavorare da casa, per cui ha avuto un po’ di tempo per pensarci su. Per di più negli anni passati ha sperimentato più volte, anche per lunghi periodi, quel tipo di smart working “d’emergenza” che si verifica quando per una ragione o per l’altra si è impossibilitati a raggiungere l’ufficio. Quindi potrei parlare dello “smart working che vorrei”, ma sarebbe inesatto: non si tratta tanto di “desideri”, ma della completa implementazione di un modello che ha delle caratteristiche fondamentali. Caratteristiche che dovrebbero essere messe al centro dell’elaborazione di un piano per lo smart working ma che, purtroppo, spesso diventano marginali una volta che si passa all’applicazione pratica.
E, quindi, ecco le 3 cose che servono allo smart working per essere davvero utile alla sostenibilità:
- Non pensare allo smart working come a un sinonimo di telelavoro. Considerare lo smart working solo come “lavoro da casa” è riduttivo. In italiano “smart working” è spesso tradotto come “lavoro agile”, e non per caso: il concetto principale su cui si dovrebbe fondare lo smart working è ragionare sugli obiettivi da raggiungere piuttosto che sulle ore di lavoro da dedicare al lavoro quotidianamente. Trascorrere 8 ore davanti al computer seduti al tavolo della cucina della propria abitazione non è smart working, al massimo può essere descritto come “lavorare da remoto”, ed è una cosa piuttosto noiosa. Al centro dello smartworking, invece, deve esserci una ridefinizione delle regole di ingaggio tra datore di lavoro e dipendente, ridefinizione basata sulla fiducia e sull’autonomia. Non si tratta più di quante ore lavori, ma di raggiungere un obiettivo, possibilmente entro una deadline. Il come, il quanto e il da dove viene raggiunto questo obiettivo non dovrebbe più essere una questione centrale, indipendentemente che si lavori da remoto o si frequentino quotidianamente le scrivanie aziendali.
- Non pensare che per fare smart working sia sufficiente dotare i dipendenti di un computer e una connessione a Internet. Lo smart working è soprattutto ottimizzazione: di tempo, di spazi, di persone. Se alla base dell’elaborazione di un programma di smart working ci deve essere l’obiettivo di rendere più efficiente l’intero processo produttivo, questo concetto deve anche essere messo in condizione di potersi concretizzare. Come? Attraverso la flessibilità. Che si concretizza, ad esempio, facendo sì che i dipendenti possano dividersi parte del lavoro, organizzandosi in modo autonomo, oppure mettendo in condizione quei team che lavorano su sedi diverse di lavorare “bene” senza essere costretti a continue – e lunghe e costose e stancanti – trasferte da una parte all’altra della città, della regione o del paese. Infine, la flessibilità dovrebbe essere anche quella cosa che ti permette un approccio realmente “smart” alla gestione dei tempi di lavoro, abbandonando finalmente la logica del “timbrare il cartellino”.
- Rendersi conto che lo smart working si fa anche in ufficio. Smart working non significa soltanto de-congestionare gli uffici, facendo lavorare altrove la gente: applicare un programma di smart working significa soprattutto iniziare dagli uffici. Ecco perché nello smart working diventa fondamentale ridisegnare gli spazi aziendali, strutturandoli in base alle attività e rendendoli funzionali ed efficienti per il tipo di attività che si richiede. Certo, superare i concetti di “postazioni fisse” e “scrivania personale” è difficile per tutti ma, chissà, magari potrà essere ancora più bello.
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