Dopo il Coronavirus la sostenibilità passa ancor più per la formazione

Se in un libro di fantascienza ci fosse stato raccontato quanto sta realmente accadendo a livello globale ci saremmo detti che cose del genere, grazie alle nostre stupefacenti tecnologie, grazie al dominio che noi pensiamo di avere anche sulla natura, e chi più ne ha più ne metta, mai avremmo pensato che ciò che sta accadendo sarebbe accaduto. Al di là delle tante persone che ci hanno lasciato, degli effetti devastanti sull’economia, sulle nostre relazioni, sui sistemi di welfare state, se nel ripartire faremo tesoro di questa terribile esperienza per pensare a un diverso sistema di relazioni, di sviluppo, di politiche forse ne potremmo ricavare enormi benefici. Tutti i settori della nostra società devono essere rivisti alla luce di questa emergenza. Io qui voglio soffermarmi su due capisaldi della nostra società, indissolubilmente legati, cercando di dargli una dimensione nazionale in ambito europeo: la formazione e il sistema agricolo.

E’ di questi giorni il dibattito con protagonista la Ministra Bellanova per la sua volontà di regolarizzare i 600.000 extracomunitari che ci serviranno per seminare campi e serre, curare il bestiame, raccogliere verdura e frutta, insomma per permettere a tutti noi di andare al supermercato e trovare gli scaffali ben riforniti e di poter far arrivare le nostre prelibatezze in tutto il mondo. La Ministra si è intestata questa battaglia anche per le fortissime sollecitazioni che le arrivano dalle associazioni di categoria di agricoltori e imprenditori. La stessa industria di trasformazione sollecita e sostiene questa iniziativa della Ministra, pena la mancanza di materia prima.
Chiaramente questa decisione della Ministra cozza contro tutti coloro che vorrebbero fare a meno di far arrivare nel nostro Paese africani e asiatici, ma la polemica fa apparire ancora una volta la nostra agricoltura come settore che ha solo bisogno di braccia, mal pagate, e dove l’unica richiesta è quella di riuscire a lavorare in condizioni di quasi schiavitù con paghe bassissime, lunghe ore di attività nei campi, “abitare” in luoghi maleodoranti e invisibili ai nostri occhi.

Io ho avuto l’onore e l’onere di rimettere in piedi un indirizzo agrario, privo tra l’altro di azienda agricola, presso l’Istituto Cassata-Gattapone di Gubbio, in Umbria, e l’ho fatto con determinazione, coinvolgendo l’Ente locale che è intervenuto con grande convinzione nel sostenere questa scelta, con le associazioni di categoria degli agricoltori, con l’intera città di Gubbio che ci ha aiutato a raggiungere questo obiettivo utile per il territorio dell’Alta Umbria. A tutt’oggi, a otto anni da quella scelta, rimango convinto di quella decisione e ne provo a spiegare i motivi: la polemica di questi giorni sulla regolarizzazione degli immigrati, come detto, se è giusto portarla avanti con determinazione per contribuire a dare a tutti i lavoratori, a tutti gli uomini, dignità, rispetto nell’ambito di diritti e di doveri, ancora una volta contribuisce a dare dell’agricoltura un’immagine fortemente deformata.

Quale la strada verso il futuro?

Per prima cosa dobbiamo convincerci che solo da un rigoroso rispetto delle leggi del pianeta si può guardare con fiducia il nostro futuro e soprattutto quello di chi verrà dopo di noi. In questo l’agricoltura può giocare, non certo da sola, un ruolo fondamentale. Ha fatto scalpore in questi giorni vedere che nella nostra inquinatissima pianura padana le polveri sottili hanno seguitato ad avere valori altissimi nonostante il traffico veicolare sia molto basso. Le enormi quantità di allevamenti presenti in questa zona fanno si che l’inquinamento sia molto alto. Allora? Dobbiamo smettere di produrre ed allevare? Certamente no, ma ci sono una serie di problematiche che vanno assolutamente affrontate. Qui, per ragioni di spazio, ne cito solo alcune, quelle, a mio avviso, più evidenti: la politica che porta avanti la GDO, il consumo consapevole, l’utilizzo della tecnologia.

Se i nostri agricoltori spesso sono costretti a dare paghe di fame a chi raccoglie frutta e verdura è anche, soprattutto, perché la GDO, che controlla l’80% della distribuzione di generi alimentari e loro derivati, e l’industria di trasformazione corrispondono prezzi bassissimi agli agricoltori formando veri e propri cartelli che schiacciano il singolo produttore. A volte vediamo frutteti e campi pieni di prodotti lasciati marcire perché il prezzo basso imposto dalle grandi catene di supermercati non riesce a coprire neppure le spese di raccolta. Non è fuori luogo parlare di cartello, perché troppo spesso laddove l’agricoltore non vende al prezzo imposto non troverà poi altri acquirenti e questo si chiama, appunto, cartello.

Altro fattore che può enormemente aiutare l’agricoltura è il consumo consapevole che da solo metterebbe fuori mercato prodotti economici, ma scadenti e dannosi per la salute, e creerebbe un circuito virtuoso che premierebbe chi produce alimenti salubri e di qualità, con eticità e professionalità . E qui non possiamo non parlare del ruolo fondamentale, decisivo che potrebbe avere la formazione: oggi la stragrande maggioranza dei Paesi riesce a “tenere” nei banchi di scuola i figli dai 3 ai 18-19 anni e ancora di più se si prosegue il percorso universitario. Chi meglio della scuola e dell’università può quindi, con le sue mense, con i suoi insegnamenti, con le sue pratiche didattiche, educare studenti e, per contagio diretto, le famiglie a un consumo responsabile e consapevole? Ne guadagnerebbe l’ambiente, la salute e in fin dei conti anche l’economia, che vedrebbe enormi risparmi da una popolazione fondamentalmente sana.

Facile a dirsi, più difficile a realizzarsi. La nostra scuola, le nostre università, spesso predicano bene, ma razzolano male, a volte malissimo. Si tengono incollati per lunghe ore i ragazzi sui banchi senza far mai usare loro le mani e così, anche chi si indirizza verso studi rivolti all’agricoltura sa tante cose teoriche, a volte purtroppo pure obsolete, ma manca di attività pratica, perché il nostro impianto formativo mette al centro, o pensa di mettere al centro, il cervello, relegando in un angolo le mani. Questa impostazione è diffusa non solo negli indirizzi legati all’agricoltura ma è generalizzata, con il risultato che i neodiplomati e neolaureati messi di fronte a problemi reali hanno enormi difficoltà a procedere.

Certo, l’alternanza scuola-lavoro, che era un tentativo utilissimo a dare concretezza al sapere e al saper fare, è stata praticamente bruciata, tanto che oggi si sono drasticamente ridotte le ore dedicate all’alternanza. Le buone idee, e questa lo era, perché funzionino vanno ben organizzate con un tessuto sia nel sociale che nel settore della produzione predisposto per far praticare ai giovani esperienze che valorizzino i loro studi, le loro abilità, la loro creatività, il loro entusiasmo. E questo non è stato fatto. L’agricoltura, ma non solo, è quella che ha risentito di più di questa licealizzazione del sapere.

Cosa ci ha insegnato l’emergenza Coronavirus?

Una politica lungimirante prenderebbe in mano questo problema del nostro sistema formativo per orientarlo molto di più di quanto si fa ora verso un sapere e un saper fare (Montessori docet).

La mia generazione ha conosciuto il servizio militare obbligatorio che è stato poi cancellato. Certamente è stato giusto mettere fine al far perdere tempo in esercitazioni con veri e propri archibugi della seconda guerra mondiale, ma prima di rinunciare ad un periodo che il giovane avrebbe dovuto dedicare al Paese si doveva riflettere un poco di più. Penso a periodi di attività in settori afferenti quelli in cui il giovane ha effettuato la formazione, sia nella scuola che nell’università, oppure come in parte oggi si fa con il servizio civile, lavorare nell’ambito del terzo settore. Anche questo, alla luce della esperienza del Coronavirus, potrebbe essere un’idea su cui lavorare.

Da ultimo, ma non certo per importanza, la tecnologia tesa al miglioramento della qualità della vita. Noi oggi disponiamo di tecnologie che intervengono in tutti i settori della nostra società e quindi anche in agricoltura, ma se questa tecnologia viene utilizzata per far sì che si arrivi ad ottenere prodotti in tempi più stretti, che si producano veleni per diserbi sempre più micidiali, che si arrivi a fabbricare api meccaniche resistenti quindi ai veleni che noi riversiamo sui prodotti che poi mangeremo, questa non è la tecnologia che ci serve. E anche in questo se i nostri giovani, nelle nostre scuole, nelle nostre università, saranno preparati anche per realizzare nella società benessere e quindi salute saranno loro i primi ostacoli a tecnologie che avvelenano il territorio e ci predispongono a malattie terribili.

Vorrei, in chiusura, sfatare una convinzione presente anche in larga parte di settori progressisti della società: regolarizziamo extracomunitari perché ci sono mestieri che gli italiani non vogliono fare. Chi è convinto di questo, dispiace dirlo, è un razzista o come minimo un rozzo superficiale. Se, come hanno fatto anche i miei figli, i giovani per arrotondare la paghetta del genitore non vanno più a raccogliere uva, fragole, pomodori eccetera è perché oggi queste operazioni si fanno fare ai disperati del terzo mondo imponendogli turni massacranti, paghe da fame, rifugi per la notte fatiscenti.
Non sono questi i lavori per i nostri giovani. Ma non lo debbono essere nemmeno per i disperati del resto del pianeta! Ecco perché la battaglia per regolarizzare queste braccia è giusta, ma ribadendo contemporaneamente che un’agricoltura moderna, che vuole contribuire alla tutela delle risorse e alla sostenibilità del sistema produttivo, ha bisogno- direi soprattutto – di intelligenze e tecnologie.

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