Un vero comunicatore non può fare a meno di Marco Antonio

Spesso, il valore dell’eloquio si misura per l’efficacia dell’effetto di ‘straniamento’ sull’ascoltatore. La capacità dell’oratore consiste nello stabilire legami d’assenza tra il vero fine e quello rappresentato dai significanti. In altre parole, ciò che non viene detto, ma solo percepito dal destinatario, deve diventare oggetto di curiosità e desiderio. Il compito non è affatto facile, come in genere si pensa, perché, da un lato, è necessaria una grande capacità di autocontrollo, mentre, dall’altro, occorre scegliere con cura parole, sintagmi e verbi e, soprattutto, aggettivi, cioè elementi che rimandino a ‘qualcosa d’assente’ e importante.

Lungo l’iter di queste suggestioni, ci proponiamo di offrire al lettore un metodo: quello del Marco Antonio di William Shakespeare.

Prima di tutto, leggiamo un frammento della ‘sua’ orazione funebre!

<<Amici, romani, concittadini, prestatemi le vostre orecchie! Sono venuto a seppellire Cesare, non a tesserne l’elogio. Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto assieme alle loro ossa. E così sia di Cesare. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Se così è stato, fu certo una colpa grave e in modo grave Cesare ne ha risposto. Qui, avendone avuta licenza da Bruto e dagli altri – poiché Bruto è un uomo d’onore e così son tutti gli altri, tutti uomini d’onore –, sono io venuto a parlare ai funerali di Cesare. Egli era mio amico, era fedele ed era giusto verso di me, ma Bruto dice che era ambizioso. E Bruto è un uomo d’onore. Ha portato qui, in Roma, molti prigionieri, il cui riscatto seppe riempire le casse dello stato: poté sembrare questo in Cesare un atto di ambizione? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato ancor lui assieme ad essi: io credo che l’ambizione dovrebbe esser fatta d’una stoffa più rude: eppure Bruto dice che egli era ambizioso e Bruto è un uomo d’onore. Tutti quanti potete ricordare di aver visto come, alla festa dei Lupercali, gli offersi ben tre volte una corona di re, la quale, tutte e tre le volte, egli insisté nel voler rifiutare. Fu questa ambizione? Eppure, Bruto dice che egli era ambizioso. E non c’è dubbio che sia un uomo d’onore. Io non parlo per dar la mentita a quel che ha detto Bruto, parlo soltanto di quel che so. Tutti l’avete amato e ne avete ragione. Quale ragione dunque v’impedisce ora di piangere per lui? O discernimento, sei fuggito a rifugiarti presso gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione. Vogliate scusarmi! Il mio cuore si trova là, nella bara con Cesare e debbo tacermi fino a quando non ritorni nel mio seno.>>

Il tradimento, nella maggior parte dei casi, è un’autodenuncia, ovverosia una denuncia della propria incapacità di ‘stare nella comunione’, una sorta di sindrome del gesto mancante. Colui che tradisce un’alleanza, un sacro vincolo, un semplice impegno ammette a sé stesso e agli altri di non saper compiere gesti decisivi, importanti, di valore pari a quello dei gesti della persona tradita, cosicché il tradimento, che potrebbe sembrare, sulle prime, un gesto eclatante, altro non è che frustrazione, sostituzione di tutti i gesti mancanti, compensazione, morbo d’una personalità svuotata. Per dimostrarsi leali è necessario dimostrare, nello stesso tempo, d’aver perduto qualcosa, d’avere rinunciato, con dolore, a una sorta di privilegio, a un titolo, a un emolumento: ciò al solo scopo di rappresentare col sangue il legame con la persona cui s’è dichiarata lealtà. Diversamente, si propone solo una metafora della malafede, di cui, di fatto, non si è molto convinti, una forma di disonestà e di diserzione affettiva: si recitano, quindi, delle litanie d’intrattenimento morale del tipo “non ho potuto fare a meno di (…)”, “ti prego di capirmi (…)”, frasi che diventano quasi dei marcatori semantici.

L’ammissione, tuttavia, è tacita, coperta e travestita dalla diabolica arte dell’inganno, per mezzo del quale la realtà è sempre adombrata. I traditori usano un linguaggio che non denota oggetti reali, tanto che un buon oratore non fa fatica a smascherarli: il Marco Antonio del Giulio Cesare di William Shakespeare si colloca esattamente, eroicamente e sapientemente tra il piano della comunicazione raffinata, quasi perfetta, e quello dell’arte di persuadere, anch’essa costruita sulla tecnica dell’aggiramento. A un cospiratore se ne contrappone un altro, il quale, tuttavia, ha il compito di fare vedere e toccare ciò che la cospirazione e il tradimento hanno occultato. La manifestazione della figura di Marco Antonio, a differenza di quella di Bruto, che, com’è noto, col cesaricidio, consegna le idi di marzo del 44 a. C. al calendario della memoria, è fortemente linguistica, psicologica, morale, ma anche singolare per genere. Egli entra nella dimensione della cospirazione e se ne fa parte attiva, ne adotta gli schemi fino a privarla di contenuto. In pratica, l’oratore shakespeariano è un infiltrato, non un cospiratore.

L’incipit del monologo è formato da una sequenza di tre sostantivi, un’esemplare trilogia idonea a catturare l’attenzione dell’uditorio; è creazione ingegnosa e vincente; è un dosaggio seducente. Coloro che ascoltano sono definiti anzitutto “amici”, nome comune che denota una particolare classe di appartenenza sociale: il destinatario ne è compreso e coinvolto, ma non impegnato e impaurito. L’instaurazione del legame tra l’oratore e il pubblico è sancita senza forzature. Se, di primo acchito, dobbiamo ammettere che un termine non è sufficiente a proclamare l’intesa necessaria, nello stesso tempo, sappiamo che questo termine non è isolato. A esso segue “romani”, che amplia l’area semantica verso la solennità dell’attaccamento alla patria. Di qui l’esordio assume un vero e proprio focus psicodinamico. L’essere amici e l’essere romani costituiscono due attribuzioni che nessuno, nello specifico contesto, può rifiutare. D’altronde, si sa che Cesare è stato assassinato per la difesa della libertà repubblicana e della dignità politica di Roma. Dall’elemento enfatico, attraverso il focus, si giunge presto all’ultimo elemento della sequenza, vale a dire “concittadini”, grazie al quale si ottiene anche la suggestione della condivisione. Agli amici romani concittadini Marco Antonio fa una richiesta e, in ciò stesso, usa una frase imperativo-esortativa; la qual cosa potrebbe materializzarsi come una caduta di stile, un errore, perché, di certo, per persuadere qualcuno non lo si deve incalzare ad agire. Tuttavia, qui si mostra appieno l’arguzia del persuasore, il quale non solo non ricorre a un verbo che imponga il fare qualcosa sotto un comando, ma riesce anche a sceglierne uno che esalti il protagonismo di chi ascolta: “prestatemi le vostre orecchie” (“lend me your ears”). L’atto del prestare implica un qualche titolo di proprietà del prestatore, il quale, dopo avere ascoltato, è ancora libero di decidere se accogliere il messaggio o rifiutarlo. È evidente che, in un contesto storico come quello riguardante l’assassinio di Cesare, è fondamentale garantire la libertà d’azione, in nome della quale s’è perpetrata la tragedia.

Ogni atto linguistico si compone di almeno tre livelli di efficienza comunicativa: il livello dell’enunciazione, per cui l’atto è definito locutivo, quello dell’azione espressa dal verbo, con il quale l’atto è definito illocutivo, e quello del fine e del compimento dell’azione stessa, in virtù del quale l’atto diventa perlocutivo. Sebbene, come s’è detto, l’atto linguistico sia sempre strutturato su questi tre livelli, la difficoltà del comunicatore sta nella resa del terzo livello: ordinare, esortare o fare in modo che qualcuno, persuaso dalle nostre parole, faccia qualcosa rientrano nell’efficacia perlocutiva dell’atto. La forza di Marco Antonio si manifesta nella gestione del terzo livello. Egli dice “Sono venuto a seppellire Cesare, non a tesserne l’elogio”. L’affermazione, di per sé, potrebbe essere poco credibile, ma di certo non è oppugnabile. Furbescamente, la negazione è posta nella seconda subordinata finale implicita, separata dalla prima per mezzo della virgola per costituire un nuovo segmento del discorso. La posizione enfatica è occupata dal sentimento: “sono venuto a seppellire Cesare” (“I come to bury Caesar, non to praise him”)

Non ci affanniamo a immaginare che William Shakespeare abbia concepito sia un’interpretazione del tradimento come compensazione sia un modulo della comunicazione efficace, ma facciamo tesoro della letterarietà del testo, che può essere riconosciuto come la più ardua tra le prove dell’oratore e del comunicatore. L’arte d’una comunicazione efficace si misura, il più delle volte, dal modo in cui il comunicatore è in grado di porre in stretta e costante relazione il ritmo dell’eloquio e i contenuti del discorso, al punto tale da far crescere gradatamente la tensione emotiva quale indicatore della curiosità. Molto di frequente, i ‘comunicatori’, invece, si abbandonano alle metafore morte.

Quando Marco Antonio riferisce la massima secondo cui “Il male che gli uomini compiono si prolunga oltre la loro vita, mentre il bene viene spesso sepolto assieme alle loro ossa”, il rischio dell’indebolimento dell’attenzione si fa pressante perché il confine tra la demagogia e i significati reali si assottiglia, inficiando anche il fine del discorso. Ciò che riscatta la massima e ne rigenera immediatamente i contenuti è incluso nella natura stessa del rischio. La valenza estetica del messaggio dell’ultimo frammento, da cui si ricava la funzione poetica del costrutto, rende immediatamente partecipe l’ascoltatore e inattaccabile il senso. Chi mai denuncerebbe come insensato il segmento di discorso appena riportato? Nessuno lo farebbe perché, in questo caso, ciascuno si classifica per deduzione arbitraria tra coloro che hanno fatto il bene.

A questo punto, l’oratore, che sa di aver inchiodato la platea, aggiunge “E così sia di Cesare”, sfruttando a proprio vantaggio l’inferenza e i rapporti logici che intercorrono tra l’enunciazione e l’interpretazione. Di fatto, per escludere Cesare dalla classe di coloro che non hanno fatto il bene occorrerebbe che si scegliesse un’unità d’interpretazione universalmente valida e tale che, una volta scelta, i più verrebbero diversamente classificati. “Cesare” è, sì, un segno, cioè un simbolo o un’espressione dotata di significato, ma, in questo caso, il significato del segno “Cesare” è dato da ciò che, nella pragmatica linguistica, è riconosciuto come formulazione di inferenze. SI tratta di quel meccanismo logico-deduttivo che sta alla base della comprensione, dell’ironia, delle figure retoriche e di tutti i rimandi della nostra lingua a qualcosa che il discorso non riporta in modo evidente. Se ne ha un esempio brillante proprio nella parte del monologo appena menzionata. Si tende facilmente a dare per scontato il senso di “il bene viene spesso sepolto assieme alle loro ossa”: non c’è una scena di sepoltura del bene cui abbiamo assistito, eppure riusciamo perfettamente a capire la frase. Ciò che adesso rischia di essere bollato come banale trae spesso in inganno. L’errata gestione dei meccanismi d’inferenza, infatti, condurrebbe comunicatori e oratori a perdere l’attenzione del pubblico.

La verve oratoria di Marco Antonio nasce, non a caso, dall’ovvietà e su di essa si sviluppa in maniera iperbolica, tagliente, fino all’inattesa originalità: in sostanza, si tratta di una strategia eccellente, che non insospettisce amici e nemici. Si ricordi sempre che egli ha dichiarato fin da principio che non è venuto a tessere l’elogio di Cesare! Il primo passaggio di qualità si materializza nel brano che segue: “Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare era ambizioso. Se così è stato, fu certo una colpa grave e in modo grave Cesare ne ha risposto”. L’aggettivo “nobile”, in questo caso, è chiaramente sarcastico; non si fa fatica a intuirlo perché ci è noto che Marco Antonio ha il dovere, non decantato, di difendere la memoria di Cesare, ma, qualora i cospiratori si opponessero all’oratore, rischierebbero la rovina: l’ampiezza semantica e, di conseguenza, l’ambiguità sono tali che ogni deduzione sarebbe da considerarsi illegittima. Dunque, Bruto è nobile o non lo è? Lasciare intendere, ma non dire, è certamente la linea strategica in questione. Gli attacchi indiretti a Bruto prenderanno presto il posto d’un vero e proprio leitmotiv. È strumentale allora l’introduzione dell’altro aggettivo topico: ambizioso. Se Bruto è nobile e Bruto ha detto che Cesare era ambizioso, allora è giusto che Cesare abbia pagato per la grave colpa, giacché, per convenzione, gli uomini ambiziosi sono da condannare. Marco Antonio continua a destreggiarsi abilmente tra i significati comunemente accettati, senza oltraggiare l’avversario. Anzi, aggiunge a sostegno della propria strategia: “Qui, avendone avuta licenza da Bruto e dagli altri – poiché Bruto è un uomo d’onore e così son tutti gli altri, tutti uomini d’onore –, sono io venuto a parlare ai funerali di Cesare”.

Il suo eloquio è garantito dall’autorevolezza di coloro che gli hanno concesso la licenza di parlare, tutti uomini d’onore. È evidente che contestare l’uso di qualche aggettivo o di qualche sostantivo significherebbe screditare anche l’onore di cui tanto si parla. Marco Antonio ripete per ben cinque volte che Bruto è un uomo d’onore; si avvale spesso della tecnica della riformulazione, applicandola addirittura a sé stesso, così da non discostarsi mai da ciò che è considerato legittimo e dicibile, e si muove per traslazioni semantiche. A tal proposito, c’è da osservare il binomio ambiziosoonore, attorno al quale ruota l’intero intervento! Riformulando costantemente, può permettersi di arricchire il discorso con “sono io venuto a parlare ai funerali di Cesare. Egli era mio amico, era fedele ed era giusto verso di me, ma Bruto dice che era ambizioso”, frammento, questo, in cui la dimensione affettiva è messa fortemente in evidenza, tanto da far passare in secondo piano un’avversativa ridondante e, in questo caso, poco giustificata come “ma Bruto dice che era ambizioso”, che di fatto non avversa “Egli era mio amico, era fedele ed era giusto verso di me”. Tra le altre cose, dire “Cesare era fedele e giusto” equivale a esprimere un giudizio compromettente; la controparte potrebbe obiettare con argomenti altrettanto validi. Prestando attenzione alla frase, si rileva che la connotazione di giudizio è ancorata al complemento “verso di me”, che restringe il dominio del giudizio stesso sottraendolo all’obiezione.

L’ascesa in direzione del climax si realizza con il brano “Ha portato qui, in Roma, molti prigionieri, il cui riscatto seppe riempire le casse dello stato: poté sembrare questo in Cesare un atto di ambizione? Quando i poveri hanno pianto, Cesare ha lacrimato ancor lui assieme ad essi: io credo che l’ambizione dovrebbe esser fatta d’una stoffa più rude: eppure Bruto dice che egli era ambizioso e Bruto è un uomo d’onore. Tutti quanti potete ricordare di aver visto come, alla festa dei Lupercali, gli offersi ben tre volte una corona di re, la quale, tutte e tre le volte, egli insisté nel voler rifiutare. Fu questa ambizione? Eppure, Bruto dice che egli era ambizioso. E non c’è dubbio che sia un uomo d’onore”. Qui, Marco Antonio assesta dei colpi letali ai nemici di Cesare, colpi preparati con accuratezza marziale e che si sostanziano in quanto li ha preceduti. Il riferimento a Roma è un nesso che già l’incipit preannuncia, tanto che adesso l’oratore non giudica i fatti, ma li descrive, facendo in modo che sia l’uditorio a giudicare i vantaggi tratti dalle azioni di Cesare. Egli non nega l’ambizione, ma chiede agli astanti ‘che cos’è l’ambizione’.

La domanda è sempre uno snodo cruciale dell’eloquio e Marco Antonio, essendone consapevole, la propone al momento opportuno. Chi è concittadino è stato beneficiario dei vantaggi prodotti dall’esecrata ambizione.

Un altro rischio è racchiuso nella descrizione della compassione del Cesare che avrebbe lacrimato assieme ai poveri, ma, ancora una volta, il ribaltamento della situazione emotiva è affidato alla funzione poetica, sicché anche lo stile si fa elegante ed è istruito dal pronome personale “Io” unito all’espressività del verbo “credere”: “Io credo che l’ambizione dovrebbe esser fatta d’una stoffa più rude”. All’akmè si giunge con la portentosa giustapposizione tra il verbo di opinione di “io credo” e il verbo di percezione di “aver visto”, con cui il comunicatore entra, per la prima volta, nel campo percettivo del proprio interlocutore, il quale, a questo punto, ha spostato l’attenzione sulle proprie emozioni.

Qualcosa che si è visto è qualcosa che appartiene a una sensazione primaria e, molto probabilmente, in certi casi, anche alla memoria. Forte della complicità affettivo-emotiva, l’oratore, che astutamente non ha fatto riferimento al tradimento per non generare sensazioni negative e controversie, si concede anche la perentorietà, estendendo il sentimento a ogni membro della comunità: “Tutti l’avete amato e ne avete ragione”. Se siamo tutti amici, romani e concittadini e, in quanto tali, abbiamo a cuore le sorti di Roma e non possiamo non riconoscere i vantaggi apportati da Cesare a Roma, allora non possiamo non amare Cesare. Le conseguenze di questo penetrante sillogismo non sono formulate, ma sono fatte passare sotto silenzio, per il tramite di interrogazioni retoriche: “Fu questa ambizione?”, “Eppure, Bruto dice che egli era ambizioso”, “E non c’è dubbio che sia un uomo d’onore”. La connotazione che il sostantivo onore assume nella seconda parte del monologo è manifestamente denigratoria. Se è vero quanto si è annunciato nel sillogismo e sappiamo che è vero, allora coloro che agiscono diversamente sono nemici di Roma. Forse, Marco Antonio si riferisce a Bruto e ai cospiratori?

La conclusione è talmente vibrante da sembrare addirittura paradossale. Il comunicatore, nell’agire contro il tradimento, non rinuncia più neppure a schierarsi sinceramente, emettendo un autentico verdetto di condanna per coloro che hanno tradito Cesare: “O discernimento, sei fuggito a rifugiarti presso gli animali bruti e gli uomini hanno perduto la ragione”.

Se c’è un momento in cui la comunicazione deve oltrepassare i confini della convenzione per guadagnare effettività, questo momento è sicuramente epigrammatico e, talora, anche epigrafico, è la fine di tutte le inferenze possibili: così, un vero Marco Antonio, pur avendo parlato a lungo e con veemenza, può dire “debbo tacermi”.

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