Il News Media Bargaining Code: l’insostenibile rapporto tra editori e piattaforme

Non solo la sostenibilità economica delle aziende editoriali: rilevanza delle notizie, qualità dell’informazione, ruolo del giornalismo e quello dei colossi digitali sono i punti aperti che emergono dal caso australiano del News Media Bargaining Code, la legge per la regolamentazione del rapporto tra editori e piattaforme digitali

Il giornalismo batte i colossi digitali: giustizia è fatta per una volta. Ma no, è il contrario, denunciano in molti. Anzi, rincara qualcuno, è tutta una farsa, perché il grande match è finito a tarallucci e vino. Vincitori e vinti. Paladini e bagnarole. Buoni e cattivi. Se le questioni tecnologiche non riescono a emanciparsi da questa stanca dicotomia, il rapporto tra editori e grandi piattaforme non fa certo eccezione.

Tra critiche, elogi e “spiegoni”, della legge australiana per il pagamento delle news da parte di Facebook e Google abbiamo letto in tutte le salse. Eppure si tende a perdere di vista perché ne dovremmo parlare anche di più, ma in maniera diversa. Il punto è che l’informazione è un fondamento della democrazia e che dalla sua distribuzione attraverso le piattaforme digitali, più che con il tornaconto di una o dell’altra parte, dipendono il web che vogliamo, la sfera pubblica che immaginiamo per gli anni avvenire e in generale la sostenibilità del nostro modello sociale.

In quest’ottica, nonostante l’entusiasmo di cui è stato oggetto, dall’Australia arriva un provvedimento con presupposti discutibili, esiti monchi e implicazioni problematiche. Un “modello” che, dal Canada all’Estonia, altri parlamenti potrebbero presto seguire, ma che rischia invece di essere insostenibile da un punto di vista sociale. Ecco perché ha senso tornare su tema che va ben al di là di quanto accaduto a Canberra.

La legge australiana

Breve riepilogo: nella sua versione definitiva, risultata da una serie di emendamenti che molti attribuiscono all’attività di lobbying di Google e Facebook, il News Media Bargaining Code approvato in Australia a fine febbraio obbliga le piattaforme digitali (quelle dominanti, nel caso in cui non abbiano dato “significativi contributi al settore giornalistico”) a stipulare con gli editori di news (quelli che superano i “150 mila dollari australiani di fatturato annuo”) accordi economici per ripagare i contenuti informativi che gli utenti vedono nei loro feed. Non ci sono cifre prestabilite, ogni caso è a sé e, se l’accordo non si trova, dopo cinque mesi scatta un arbitrato in cui lo Stato prende una decisione irrevocabile. Alle piattaforme è inoltre richiesto di avvisare anticipatamente gli editori nel caso di cambiamenti algoritmici che possano modificare la visibilità dei loro contenuti o richiedano adeguamenti. Detto questo, ciascuna delle parti in causa può scegliere di non servirsi dell’altra senza alcun vincolo, nel senso che, come un giornale può rimuoversi da Facebook, Facebook può rimuovere un giornale e finisce lì.

Le prime contraddizioni

Già così ci sono abbastanza evidenze per ridimensionare la portata rivoluzionaria che molti commentatori hanno associato a un provvedimento di questo genere.

1) Il decantato obbligo imposto alle piattaforme digitali non è di pagare gli editori, ma di farci una discussione che può chiudersi con un nulla di fatto.

2) Se ciascun accordo segue un proprio iter significa che la remunerazione e la visibilità dei contenuti degli editori sulle piattaforme potrà variare anche di molto, ponendo una questione di neutralità della piattaforma che – a differenza di quanto avvenuto fin ora rispetto agli effetti algoritmi che, per quanto opachi, supponiamo uguali per tutti – diventa lampante. Ogni editore può fare richieste diverse e può vedersi offrire condizioni diverse in base al suo peso sociale, politico, economico.

3) Gli editori sono considerati in base al loro fatturato, ma che fine fanno tutti gli altri, magari più piccoli o no-profit? Non necessariamente gli introiti rispecchiano la diffusione e l’engagement che un produttore di contenuti può raggiungere, anzi.

Un dialogo mai cominciato

C’è la componente del dialogo tra editori e piattaforme, non scontato, certo. C’è la componente statale, per quanto l’intervento decisionale delle autorità arrivi in ultima battuta e probabilmente assai di rado. Soprattutto, c’è la componente economica, messa dinanzi a tutto il resto, per quanto non garantita. A parte questo una legge del genere è, senza la pretesa di cambiarla nella sostanza, una formalizzazione della realtà. Per quanto resti un unicum, viaggia su binario di iper-liberalizzazione e disparità: lo Stato si limita a riconoscerle e tradurle in legge, invece di considerarle una parte del problema che si era proposto di affrontare e che, in questo modo, ridimensiona.

In ballo ci sono la rilevanza delle notizie, la qualità dell’informazione, il ruolo del giornalismo e quello dei colossi digitali, non soltanto la sostenibilità economica delle aziende editoriali. Nel 2021 la narrazione che fa dello Stato un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri, o presunti tali, è poco veritiera e ha stancato. Non si può più ridurre tutto alla proprietà dei contenuti e al pagamento degli editori, che lamentano un epocale furto di denaro e di potere da parte delle Big Tech per poi magari accontentarsi della loro mancia. Al costo di non cambiare il web di una virgola (nonostante piogge di editoriali critici) o magari di renderlo peggiore di quanto già non sia. Perché, al di là della materia specifica, il modello australiano ha almeno due implicazioni a monte.

L’abdicazione

La prima, nonostante la presa di posizione della politica, è paradossalmente l’abdicazione al potere delle piattaforme digitali, che – a meno che non si arrivi a un arbitrato – decidono se, quanto e chi pagare. Lo Stato non definisce secondo quali criteri si dà e si riceve il denaro: le parti in causa hanno totale autonomia, con i giornali più influenti che potranno magari ricattare Facebook e Google di screditare la loro immagine, e questi ultimi che potranno minacciare l’oscuramento sulle piattaforme. In più, si classifica qual è un editore degno di retribuzione in base al suo fatturato, ma non quali sono i contenuti degni di una retribuzione in base alla loro qualità.

Un esempio su tutti: in Australia ad aver già stretto un accordo con Google e, proprio questa settimana, con Facebook è NewsCorp, il maggiore editore del paese, di proprietà di Rupert Murdoch. Ebbene, diverse testate appartenenti al gruppo sono colpevoli di aver sminuito la gravità degli incendi che la scorsa estate hanno devastato il paese. Sono questi i contenuti da remunerare? Le risorse ottenute saranno utilizzate per l’innovazione dei giornali e il miglioramento dei contenuti? Un editore più piccolo e meno aggressivo, avrebbe avuto lo stesso potere contrattuale del magnate australiano? La risposta a tutte le domande è no.

Allo stesso modo, quando si richiede alle aziende hi-tech di informare i media sui cambiamenti dell’algoritmo, si accetta il fatto che queste li modifichino a loro piacimento anche per quanto concerne contenuti, come le notizie, che hanno un impatto notevolissimo sulla società. Fermo restando che le istituzioni pubbliche non devono “espropriare” gli algoritmi e tantomeno mettere il bavaglio agli editori, dovrebbero esplorare le possibilità di regolamentare ciò che in rete condiziona la vita della nostra comunità e che non può essere un privato a determinare arbitrariamente. Non è semplice, ma è esattamente questo che dovrebbe fare la politica. Al contrario, in giro per il mondo si inneggia alla vittoria sulle Big Tech, finalmente costrette a pagare. La strada è ancora lunga, anche perché resta ancora una domanda: pagare che cosa in fondo?

Si legge link tax

E così arriviamo alla seconda implicazione. Google e Facebook non copiano e non ripubblicano integralmente i contenuti degli editori. Quello che fanno è creare un collegamento con quei contenuti e, anzi, se parliamo di social network a crearlo sono gli editori stessi o i comuni utenti. Fatti salvi format specifici e contenuti nativi (si pensi alle AMP Stories di Google, agli Instant Articles di Facebook o alle dirette video su Instagram e YouTube), di cui il News Media Bargaining Code australiano non fa alcuna menzione e che il più delle volte rientrano in accordi o programmi destinati al giornalismo, è con dei semplici link che abbiamo a che fare. Come già accaduto tre anni fa con la proposta della link tax europea, quei collegamenti sono concepiti come oggetto di proprietà. Il World Wide Web però, come in quell’occasione ricordò Tim Berners Lee, si fonda sulla possibilità di linkarsi liberamente e questo è un principio a cui la nostra società – magari a cominciare da coloro che spesso si ergono a paladini delle libertà democratiche minacciate dalla tecnologia – non dovrebbe rinunciare con leggerezza.

È evidente che ai giornali in crisi piace l’idea di incassare periodicamente un assegno dai cattivi di questa storia, Google e Facebok, soprattutto di fronte al colpo che il programmatic advertising si prepara a incassare con la stretta che il motore di ricerca imporrà dal 2022 ai cookies di terze parti. Ma, anche se apparentemente giusto, il passaggio non è così banale. E c’è da domandarsi: chi dopo gli editori potrà avanzare pretese analoghe? Potenzialmente chiunque.

Un edicolante vende giornali ai lettori che li vogliono, guadagnando per sé e facendo guadagnare gli editori che li producono. Sarebbe giusto fargli pagare una tassa per poter esporre i giornali ancor prima di venderli? Ma – si dirà – le piattaforme digitali producono ulteriore valore dalle interazioni con i contenuti di quei giornali, che utilizzano per profilare i lettori e vendere i loro dati agli inserzionisti, allontanandoli dai giornali stessi a cui precedentemente si affidavano. Vero, eppure anche il caro vecchio edicolante conosce bene i suoi clienti e può proporgli rotocalchi o altri prodotti in base al giornale che comprano abitualmente, magari facendo felice un altro editore. Senza contare che nulla impedisce al cliente di comprare di sua iniziativa un giornale in più oltre al suo preferito, perché l’ha trovato in una buona posizione in edicola – arbitrariamente scelta dall’edicolante o pagata dall’editore – e ci ha visto un titolo o un’immagine accattivante.

Google e Facebook non sono certo paragonabili a un’edicola per le loro dimensioni ma anche perché, se i clienti vanno in edicola per trovare i giornali, sulle piattaforme le cose cambiano: “solo il 4% del news feed di Facebook è effettivamente occupato da notizie” – ricorda l’editorial board di Bloomberg – e “solo circa l’1% delle ricerche su Google in Australia riguarda l’attualità”. Il confronto dunque è chiaramente fuori scala, ma ci aiuta a capire che un principio non andrebbe messo in discussione in base agli attori che sono coinvolti e a quanto sono scomodi.

Un rapporto insostenibile

Il sostentamento dei giornali non si risolverà né con una link tax né con accordi pseudo-obbligatori. Ma il punto vero è che siamo di fronte a una questione ben più grande: la garanzia e la tutela di un’informazione che in rete si mantenga libera, plurale e corretta in modo da alimentare una società democratica. Finché questa, oltre che fondamentale per la tenuta della democrazia, non sarà ritenuta anche necessaria sul web, il rapporto tra piattaforme ed editori continuerà ad avere ricadute potenzialmente gravi e resterà insostenibile. La soluzione per evitarlo non deve ricadere unilateralmente sulle piattaforme, ma richiede il coinvolgimento attivo degli editori e una politica più consapevole dell’impatto che internet può avere sulla società. Solo così andremo verso un modello realmente sostenibile, che garantisca tutti ma soprattutto gli utenti.

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